Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, in un’intervista a Domani del 21 luglio 2021, facendo appello alle coscienze e alla memoria dei morti che “non si possono difendere, non possono parlare” e prevedendo che “Falcone e Borsellino si saranno girati tre volte nella tomba a sentire i contenuti di questa riforma”, ha previsto che il processo alle cosche calabresi in corso di celebrazione a Vibo Valentia denominato Rinascita Scott “non si concluderà in appello negli anni previsti da questa riforma e se qualcuno dovesse chiedere la riapertura dell’istruttoria in appello… il processo non si chiuderà più”.
La preoccupazione del procuratore è che, qualora entrasse in vigore la riforma Cartabia, non si riuscirebbe a celebrare il processo di appello prima dello spirare del termine di due anni dalla pronuncia della sentenza di primo grado con conseguente annullamento per improcedibilità delle (eventuali) condanne e conseguente grosso favore alle cosche.
Premesso che in realtà il termine da considerare sarebbe di tre anni, stanti i gravi reati contestati, e che in caso fosse riaperta l’istruttoria in appello i termini sarebbero sospesi, non ha però tenuto conto, il procuratore Gratteri, che l’art. 14 bis del disegno di legge prevede che le disposizioni in questione si applicheranno ai soli procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a far data del 1° gennaio 2020; e i reati contestati nel processo Rinascita Scott sono stati tutti commessi ben prima del 2020. La disciplina in approvazione non sarebbe quindi applicabile a quel procedimento.
Se così stanno le cose, viene da chiedersi se i calcoli di Gratteri hanno un fondamento statistico o se sono frutto di mere approssimazioni quando afferma (come fatto in audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera) che, se venisse applicata la riforma, il 50 per cento dei processi italiani sarebbe dichiarato improcedibile in appello. Il Foglio calcola che tale previsione è tre volte superiore a quella, già catastrofica, ipotizzata dalla stessa Anm. Insomma regna l’approssimazione.
Per le stesse ragioni non sembrano giustificate neppure le allarmistiche dichiarazioni del procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho, quando spiega che la riforma “mina la sicurezza del Paese” e “non corrisponde alle esigenze di giustizia” anche perché “riguarda tutti i processi” compresi quelli per “reati gravissimi” come mafia, terrorismo e corruzione con conseguenze sulla “sicurezza della nostra democrazia”.
A prescindere dall’utilità di affrontare i problemi ricorrendo alle frasi ad effetto anziché offrire soluzioni concrete, va anche qui rilevato che nel disegno di legge per i procedimenti più complessi i termini tra primo grado ed appello (e tra appello e cassazione) sono previsti essere più lunghi e comunque la normativa in approvazione non si applica per i reati più gravi, quelli puniti con l’ergastolo.
Insomma l’impressione è che critiche cosi viscerali siano dettate più dall’emotività che non fondate su un confronto approfondito con la lettera delle norma o con dati statistici certi.
Più calibrata sembra essere la valutazione dell’ex Pm Armando Spataro, magistrato di grande e lunga esperienza, che in un’intervista al Corriere della Sera invita a valutare il progetto di riforma non prendendo in considerazione le novità in tema di prescrizione e improcedibilità, ma operando una valutazione d’insieme e quindi apprezzando anche le altre innovazioni introdotte dalla nuova normativa, tutte finalizzate ad accelerare i tempi del processo ed ispirate al principio di ragionevole durata.
In questo senso si confida che la discussione in aula apporti solo migliorie alla proposta senza operare stravolgimenti che possano snaturarla.
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