Il Green deal rimarrà al centro del programma economico europeo nel prossimo mandato di Ursula von der Leyen. Gli obiettivi “green” al 2030 e 2050 sono confermati e nei primi 100 giorni della nuova presidenza verrà presentato un nuovo piano per l’industria “clean”. L’obiettivo è quello di far scendere i costi energetici investendo in rinnovabili “economiche e casalinghe” e di “conciliare la protezione del clima con un’economia prospera”. Con queste premesse la delusione per i cittadini europei rischia di essere grande.
Un osservatore, anche distratto, dovrebbe chiedersi come mai l’Europa sia rimasta sola nel suo sogno green. Biden chiuderà il suo mandato con un incremento della produzione di idrocarburi nazionali di oltre il 25% e un prezzo del gas ai minimi. È difficile spiegare questa solitudine avanzando come ipotesi l’insensibilità climatica di tutti gli altri. Oltre agli investimenti per ricreare da zero una nuova filiera energetica, a colpi di incentivi pubblici, al fondo della questione c’è il problema irrisolto della non programmabilità delle rinnovabili. Lo vediamo in questi mesi con i prezzi dell’energia elettrica in risalita in tutta Europa anche nel Paese, la Germania, che più di tutti ha investito in rinnovabili. I consumi delle famiglie e delle imprese non sono intermittenti, mentre la produzione rinnovabile sì e tutte le tecnologie che potrebbero fare da ponte, dalle batterie all’idrogeno verde, non saranno economicamente praticabili, su scala industriale, per uno o due decenni. La seconda questione è che la rinnovabile più promettente, il solare grazie al crollo dei prezzi dei pannelli, richiede grande disponibilità di spazi che in Europa sono scarsi. Il presente, per garantire energia affidabile, richiede idrocarburi o nucleare su cui però non si investe.
Questo è il cuore economico, poi c’è la dura realtà del sogno “sovranista” europeo di indipendenza energetica. In Europa non ci sono né rame, né terre rare a meno di ipotizzare l’apertura di miniere in regioni ad alta densità abitativa o senza riguardo per il territorio. La tecnologia delle batterie, della loro gestione e la produzione di pannelli solari è tutta in mano cinese. All’Europa per creare una catena produttiva affidabile sulle materie prime e le componenti necessari alla transizione serve, come minimo, un decennio. L’idrogeno verde, la grande speranza, non solo richiede investimenti colossali ma in Europa non sarà mai neanche lontanamente conveniente come quello prodotto in Medio Oriente, per la semplice ragione che dall’altra parte del Mediterraneo la disponibilità di sole, di vento e di territorio è infinitamente più alta.
L’Europa brucia i ponti confermando il divieto di motori termici al 2035 e chiudendo i rubinetti degli investimenti in idrocarburi europei, accantonando il nucleare tradizionale e scommettendo su una transizione a cui, come minimo, manca un pezzo che è quello dell’accumulo dell’energia. Per creare quell’eccesso di energia da accumulare servirebbe, tra l’altro, incrementare di multipli la capacità installata rinnovabile.
Questo, ed è il secondo elemento del problema, in un mondo in cui tutti stanno correndo per rimpatriare capacità produttiva eventualmente introducendo dazi, anche pesanti, e sicuramente rifiutandosi di sottoporre il proprio sistema industriale ai costi certissimi e decisivi di un futuro “green” incerto. Ci chiediamo come si possa difendere la competitività delle imprese europee in un mondo in cui gli altri sistemi industriali decidono di non pagare l’avventura della transizione.
Il terzo punto è il più doloroso per i cittadini europei ancora convinti che questo sogno verde non solo non sia costoso ma anche conveniente. La grande scommessa verde dell’Europa è garantita dai risparmi europei cooptati a garanzia dei costi che intercorreranno tra il presente e il futuro successo della transizione. Pensiamo alla tassa sulla CO2 che oggi incide per quasi il 20% dei prezzi dell’elettricità italiani oppure al costo degli incentivi alle rinnovabili, 7 miliardi solo in Italia nel 2023 con regioni in cui non si costruisce un ospedale da 20 anni, oppure a quelli caricati sulla rete per gestire le oscillazioni violente della produzione rinnovabile. Poi ci sono i costi di sostituzione delle caldaie, delle automobili o quelli, decine di migliaia di euro a famiglia, per migliorare la classe energetica delle case.
La seconda tipologia di costi che pagheranno gli europei è quella dei dazi; in questo grande esperimento green l’unico modo per proteggere l’industria europea dalla competizione “sporca” dei suoi competitor è mettere i dazi e i dazi significano prezzi più alti.
Per questo più l’Europa si addentra, in solitaria, nella rivoluzione green più diventerà impellente la necessità di trovare forme di socializzazione dei suoi costi perché in un mondo di energia scarsa e costosa e di prezzi alti a pagare sono soprattutto i poveri. Scriviamo socializzazione dei costi, ma quando si tocca il cuore dell’economia, l’energia, il risultato più che una socializzazione è un socialismo e basta.
Mentre leggiamo del sogno verde europeo la Turchia, membro Nato e un nuovo competitor dell’Unione, organizza un meeting in Niger per trovare combustibile per i suoi nuovi reattori nucleari a tecnologia russa. La parola “nucleare” nel discorso di ieri di Ursula von der Leyen non compare neanche una volta come se l’Europa non sapesse o non conoscesse quello che accade in Spagna e in Francia. E come se non si sapesse che quella energia è programmabile e certa come è programmabile la durata della costruzione di una centrale.
La domanda inevitabile è quando gli europei si renderanno conto di essere più soli e più poveri e cosa bisognerà inventare per nascondere la verità.
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