Molte delle sfide ambientali che stiamo affrontando sono di natura globale. Il riscaldamento globale è legato alla quantità complessiva di anidride carbonica emessa sul nostro pianeta, indipendentemente dal luogo in cui è stata emessa. Sfide globali richiederebbero riposte e politiche globali. Ma il periodo non sembra affatto propizio per dare risposte e concepire politiche di portata globale: la globalizzazione, infatti, nonostante l’indubbio miglioramento nel tenore di vita che essa ha generato per un gran numero di persone nel mondo (anche nei Paesi ricchi) sta vivendo un lungo periodo di crisi. Da una parte, le guerre e il ritorno di un mondo strutturato in blocchi di Paesi contrapposti determinano una pesante limitazione dei commerci. Dall’altra nel mondo occidentale molti cittadini vorrebbero tornare a un’economia più locale. Si tratta di un sentimento diffuso in particolare, per citare due tra le fasce di popolazione maggiormente interessate, fra coloro che ritengono che la propria situazione personale sia danneggiata dalla globalizzazione, magari perché l’impresa in cui lavorano o lavoravano fa fatica (o ha dovuto chiudere), spiazzata da prodotti importati, oppure perché, in generale, imputano alla globalizzazione un peggioramento del proprio tenore di vita; nonché fra coloro che vorrebbero limitare l’immigrazione e a cui, nel complesso, non piace la direzione su cui si sono avviate le società occidentali dal punto di vista della cultura e dei valori. Questi gruppi di cittadini chiedono politiche di restrizione della globalizzazione e, in molti casi, preferiscono l’unilateralismo al multilateralismo.
Anche all’interno del nostro blocco atlantico la situazione non è semplice, né uniforme. All’Europa, che intende proseguire il proprio percorso iniziato con il Green Deal del 2020, si contrappongono gli Stati Uniti. Le incerte elezioni americane mettono infatti di fronte Trump, che osteggia l’elettrificazione dei veicoli e, presumibilmente, allenterebbe le politiche ambientali, e Harris, che verosimilmente proseguirebbe nel solco di Biden, con politiche ambientali caratterizzate da una forte impronta protezionista pro-statunitense, sulla scia dell’Inflation Reduction Act.
La nuova Commissione europea che entrerà in carica a novembre e che sarà guidata ancora da Ursula von der Leyen si troverà in una situazione delicata. Potrebbe trovare poche sponde a livello internazionale per la propria politica ambientale, rischiando di sostenere gli elevati costi di una transizione ecologica veloce, senza ottenere gli effetti sperati, vista la possibile scarsa collaborazione degli altri Paesi (e visto che, come ricordato sopra, le sfide ambientali sono di natura globale). La situazione è ulteriormente complicata dal successo elettorale di cui hanno goduto, alle recenti elezioni europee i partiti cosiddetti di destra più o meno marcatamente ostili alle politiche ambientali, che potrebbero avere buon gioco ad accusare la Commissione di volere “pagare per tutti”, senza neppure poter ottenere risultati tangibili in termini di mitigazione del riscaldamento globale. D’altra parte, è ipotizzabile che la Commissione voglia dare compimento al Green Deal, sia perché promesso in campagna elettorale dai partiti della cosiddetta maggioranza Ursula (e del resto recentemente ribadito da von der Leyen stessa), sia perché fare completa marcia indietro su misure già annunciate e approvate, come lo stop previsto per il motore endotermico, genererebbe costi rilevanti per le imprese che avessero già programmato i propri investimenti e, a cascata, sulla collettività.
Come dunque poter combinare l’esigenza di dare compimento al Green Deal e quella di tenere realisticamente conto delle difficoltà attuali del multilateralismo?
In generale, il periodo immediatamente successivo alle elezioni può essere propizio per approvare provvedimenti ponderati e con impatto significativo sulla crescita. Conclusa la campagna elettorale, e sufficientemente lontani dalla successiva, si affievoliscono le logiche elettoralistiche e i partiti sono più propensi ad accordarsi su soluzioni ragionevoli, ancorché, magari, non facili da spiegare agli elettori. Inoltre, c’è tempo, prima delle elezioni successive, perché gli elettori possano toccare con mano gli effetti positivi, di medio termine, dei provvedimenti approvati a inizio legislatura: cosa che invece, naturalmente, non accade per le leggi approvate a fine legislatura. Questo ragionamento potrebbe rivelarsi vero anche per l’Europa. Il nuovo Parlamento e la nuova Commissione potrebbero trovare proprio all’inizio del loro percorso, da fine 2024, soluzioni caratterizzate dal più ampio consenso possibile fra i partiti e guidate dalla concretezza e dal pragmatismo, anziché dalle tifoserie ideologiche. Per farlo, occorrerà disegnare un percorso credibile, accettabile dalla popolazione e facilmente comunicabile, attorno al quale possa coagularsi un ampio consenso dell’opinione pubblica. Per essere credibile, occorrerà essere chiari su come tale transizione verrà finanziata. Ad esempio, quale soggetto finanzierà gli ampliamenti alla rete elettrica necessari per la transizione alla guida elettrica o le ristrutturazioni edilizie finalizzate all’efficientamento energetico rese obbligatorie dalla cosiddetta direttiva “case green”? Esisterà un fondo finalizzato europeo, o saranno a carico degli Stati o dei cittadini?
Per essere accettabile, occorrerà fissare le scadenze in modo ragionevole, eventualmente posticipando, se necessario, di qualche anno quelle già fissate, per minimizzare i danni per l’industria europea. In un momento di unilateralismo come quello attuale, si rendono poi necessarie azioni di politica industriale e di politica estera, quanto meno per consentire alle imprese europee di avere accesso alle materie prime necessarie per la transizione. Un ulteriore pilastro dell’accettabilità impone di prevedere aiuti o percorsi di reinserimento per le imprese e i lavoratori che, inevitabilmente, verranno danneggiati dalle politiche ambientali, così da placare quelle sacche di opposizione che potrebbero rallentare, o addirittura bloccare, la norma.
Anche in un contesto complicato e tumultuoso come quello in cui stiamo vivendo, la chiarezza e la condivisone di un buon piano di transizione ecologica contribuirebbero non solo a mitigare il cambiamento climatico, ma anche a rendere i cittadini più fiduciosi nella democrazia.
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