Fra le ideologie che a pieno titolo rientrano nei fondamentalismi vi è certamente quella dell’ecologismo radicale, ampiamente pubblicizzato dai media tradizionali e dai social media, i cui benefici anche economici e politici vengono incassati da associazioni ambientaliste, partiti verdi e i cui contenuti vengono strombazzati troppo spesso anche da docenti analfabeti in materia scientifica ma pieni di fervore ideologico, con il quale hanno sostituito quello sessantottino o quello no global. Ieri Che Guevara oggi Greta.



A tutti coloro che quotidianamente e costantemente sono fatti oggetto di un sistematico bombardamento propagandistico non possiamo che consigliare la salutare lettura del saggio di Guillaume Pitron, La Guerra dei metalli rari (Luiss, 2019). A proposito delle alternative ecologiche – o presunte tali – l’autore riporta alcuni dati.



Pitron comincia la sua breve rassegna dai pannelli fotovoltaici. La sola produzione di un pannello solare, tenuto conto in particolare del silicio che contiene, genera più di 70 chili di CO2. Con un numero di pannelli fotovoltaici che da qui in avanti aumenterà del 23% su base annua, significa che le istallazioni solari fotovoltaiche produrranno 10 gigawatt di elettricità supplementare ogni dodici mesi, rigettando nell’atmosfera 2,7 miliardi di tonnellate di carbonio, ovvero l’equivalente dell’inquinamento generato in un anno dall’attività di circa 600mila automobili.

L’impatto è ancor più pesante quando ci si concentra sui pannelli che funzionano a energia solare termica: alcune di queste tecnologie consumano fino a 3.500 litri d’acqua per megawatt/ora, il 50% in più di quella necessaria a una centrale a carbone. Dato ancor più problematico se si considera che le aziende solari sono molto spesso situate in zone aride, dove le risorse d’acqua sono per l’appunto rare.



Rivolgiamo la nostra attenzione alle batterie elettriche. Dopo aver guardato i numeri da tutte le angolazioni, consultato numerosi studi universitari e condotto ricerche in proprio, l’autore è giunto a una conclusione singolare. Torniamo al 2012: alcuni ricercatori dell’Università della California Los Angeles (Ucla) decidono di comparare l’impatto di carbonio di un’automobile tradizionale alimentata a petrolio a quello di un veicolo elettrico. E la prima scoperta è clamorosa: la fabbricazione di un’automobile elettrica, che si presume consumi meno energia, ne richiede molta di più rispetto a quella richiesta dalla lavorazione di un’automobile tradizionale. Ciò si spiega nello specifico con le loro batterie, generalmente agli ioni di litio, che sono pesanti, pesantissime.

Pensate che quella utilizzata  per il modello S della celebre marca Tesla costituisce da sola il 25% del peso totale dell’automobile, ovvero 544 chili, la metà del peso di una Renault Clio. Le batterie a ioni di litio sono costituite dall’80% di nichel, dal 15% di cobalto, dal 5% di alluminio ma anche da litio, rame, manganese, acciaio e grafite. Dobbiamo forse ricordare al lettore distratto in quali condizioni questi minerali vengono estratti in Cina, Kazakistan o Repubblica Democratica del Congo? O dobbiamo ricordare anche il fatto che sono soggetti a raffinazione e che devono essere trasportati e assemblati? Oppure gli araldi del politicamente corretto – sovente sintonizzati su determinati canali della Rai – sono persuasi che magicamente le batterie elettriche vengano prodotte e distribuite?

La conclusione dei ricercatori di Ucla è che l’industrializzazione di una vettura elettrica consuma da sola da tre a quattro volte più energia di quella di un veicolo convenzionale. In compenso, quando il ciclo di vita si completa i vantaggi di un veicolo elettrico sono reali, dal momento che, non richiedendo petrolio, le emissioni di carbonio nell’atmosfera sono molto più basse: 32 tonnellate di carbonio dalla fabbrica alla dismissione, rispetto a circa il doppio per un’automobile convenzionale. Una batteria sufficientemente potente da far andare una macchina per 300 chilometri corrisponderebbe al raddoppiamento delle emissioni di carbonio generate durante la lavorazione del veicolo. E nel caso di una batteria con un’autonomia di 500 chilometri bisognerebbe addirittura triplicarle.

Quale è il risultato? Un’automobile elettrica genererebbe, nel suo intero ciclo di vita, tre quarti delle emissioni di carbonio di una vettura alimentata a petrolio, e con il miglioramento delle prestazioni delle automobili elettriche aumenteranno di pari passo la quantità di energia richiesta per fabbricarle e i gas a effetto serra generati nel processo. Nel mentre il gruppo Tesla ha annunciato che i modelli S saranno d’ora in poi dotati di batterie che superano i 600 chilometri di autonomia e che presto, come promesso dal presidente Elon Musk, raggiungeranno gli 800 chilometri. A quale conclusione arriviamo allora?

Per quanto i veicoli elettrici siano tecnicamente realizzabili, la loro produzione non sarà mai sostenibile dal punto di vista ambientale. D’altra parte numerosi studi dedicati allo stesso tema hanno tratto conclusioni abbastanza simili: il consumo energetico di un veicolo elettrico è nel complesso simile a quello di un veicolo diesel. Anzi, potrebbe addirittura emettere più CO2 se l’elettricità che consuma provenisse principalmente da centrali a carbone, come succede in Stati come la Cina, l’Australia, l’India, Taiwan o il Sudafrica.

Molte domande restano sospese: il ricambio della batteria del veicolo, che spesso si logora in fretta, è stato considerato? Conosciamo con precisione i costi ecologici dell’elettronica e degli altri oggetti di cui questi veicoli sono pieni? Che dire poi dell’impatto ambientale del futuro riciclaggio di queste automobili, ancora in gran parte nuove? Infine, quanta energia sarà consumata per costruire le reti e le centrali elettriche necessarie per questi nuovi bisogni? Ma naturalmente – conclude il giornalista francese – non è interesse di nessun professionista delle energie verdi dare risalto a questi argomenti.

Tuttavia uno dei capitoli certamente più interessanti del lavoro di Pitron è quello dedicato alla materialità del visibile cioè all’industria elettronica.

Il digitale richiede lo sfruttamento di considerevoli quantità di metalli: ogni anno l’industria elettronica consuma 320 tonnellate di oro e 7.500 tonnellate di argento, si accaparra il 22% del consumo mondiale di mercurio (ovvero 514 tonnellate) e fino al 2,5% del consumo di piombo. La fabbricazione dei soli computer e telefoni cellulari inghiotte il 19% della produzione mondiale di metalli rari come il palladio e il 23% di quella di cobalto, senza contare la quarantina di altri metalli contenuti in media nei telefoni cellulari. Inoltre il prodotto di cui dispone il consumatore rappresenta solo il 2% della massa totale dei rifiuti generati durante l’intero ciclo di vita. È sufficiente fare un esempio, sottolinea l’autore. La fabbricazione di un microchip di due grammi implica da sola la creazione di due chili circa di materiali di scarto ovvero una proporzione di 1 a 1000 tra la materia prodotta e gli scarti generati. E qui parliamo solamente della produzione di strumenti digitali.

In realtà il funzionamento delle reti elettriche genererà logicamente un’ulteriore attività digitale, e quindi inquinamento supplementare, di cui iniziamo a conoscere gli effetti. Pensiamo ad una banale email: parte dal computer, arriva nel router, scende dall’edificio, raggiunge un centro di raccordo, transita da una linea privata verso snodi nazionali e internazionali, poi passa attraverso l’host di posta elettronica (che di solito ha sede negli Stati Uniti). Nei centri di archiviazione dati di Google, Microsoft o Facebook, la mail è trattata, archiviata e poi inviata al suo destinatario. Risultato? Ha percorso circa 15mila chilometri alla velocità della luce. Tutto questo ha un costo ambientale: una mail con un allegato utilizza l’elettricità di una lampadina a basso consumo di forte potenza per un’ora.

Ebbene, ogni ora vengono scambiati nel mondo dieci miliardi di email, quindi 50 gigawatt/ora, cioè l’equivalente della produzione elettrica di quindici centrali nucleari in un’ora. E per gestire i dati in transito e far funzionare i sistemi di raffreddamento, un solo data center consuma ogni giorno altrettanta energia di una città di 30mila abitanti. Più in generale, sottolinea l’autore, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) consuma il 10% dell’elettricità mondiale e produce ogni anno il 50% in più di gas a effetto serra rispetto al trasporto aereo. Se il cloud fosse uno Stato, sarebbe il quinto al mondo in termini di domanda di elettricità. Naturalmente è solo l’inizio.

Come promesso dai giganti della Silicon Valley, la transizione energetica e digitale si avvarrà di un’ulteriore costellazione di satelliti per connettere a internet la totalità del pianeta, di razzi per lanciarli nello spazio, di una legione di computer per identificare l’orbita corretta, trasmettere sulle giuste frequenze e criptare le comunicazioni con strumenti digitali adeguati, di stuoli di supercalcolatori per analizzare il profluvio di dati e, per diffondere l’informazione in tempo reale, di una ragnatela planetaria di cavi sottomarini, di un dedalo di reti elettriche aeree e sotterranee, di milioni di terminali informatici, di moltissimi centri di archiviazione dati, di miliardi di tablet, smartphone e altri dispositivi connessi di cui andranno ricaricate le batterie… La sedicente marcia felice verso l’era della dematerializzazione non è altro che un grande inganno, poiché in realtà genera un impatto fisico sempre più considerevole. Per questo Leviatano digitale avremo bisogno di centrali a carbone, a petrolio, a gas e nucleari, di campi eolici, di fattorie solari e di reti intelligenti, tutte infrastrutture per cui ci serviranno metalli rari. Ma di tutto questo Jeremy Rifkin non dice una parola, sottolinea con amarezza l’autore.

A tale proposito il giornalista francese non senza una velata ironia ricorda al lettore il suo vano tentativo di contattare il guru della green technology. Da cosa dipende questo colpevole silenzio? Forse a causa dell’incredibile peccato originale di cui risente la transizione energetica e digitale: questa infatti è stata pensata come indipendente dal suolo. Un errore, questo, che viene frequentemente compiuto da tutti coloro che criticano a posteriori la rivoluzione industriale del settecento dopo naturalmente averne incassato i benefici. Rivoluzione industriale che fu possibile anche – ce lo ricordano gli storici Hill e Landes – grazie al colonialismo inglese, grazie alla schiavitù ampiamente utilizzata dagli inglesi in India come in Africa, grazie al massiccio e sistematico sfruttamento della manodopera operaia ma anche grazie agli inventori, agli artigiani specializzati, ai considerevoli e consistenti investimenti di banche private come quelle dello Stato inglese in infrastrutture viarie e portuali.

Ritornando alle riflessioni dell’autore, le green tech, nascano nella testa di un ricercatore in scienze fondamentali, vedano un’applicazione concreta grazie alla perseveranza di un imprenditore, siano favorite da una fiscalità attraente e da regolamentazioni flessibili, e siano supportate da investitori audaci e da business angels benevoli, ciò nondimeno ognuna di esse ha più prosaicamente origine in un cratere scavato nel suolo. Ed eccola la provocatoria conclusione dell’autore: “Esigendo dalla terra un nuovo tributo, rimpiazziamo così la nostra dipendenza dal petrolio con un’altra assuefazione, quella dai metalli rari. Bilanciamo una privazione con un eccesso, un po’ come un tossicomane che per interrompere la propria dipendenza da cocaina cade in quella da eroina. In fondo, lungi dal risolvere la sfida dell’impatto dell’attività umana sull’ecosistema, non facciamo altro che spostarlo”.

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