Intervenendo nell’incontro inaugurale del Meeting di Rimini, Mario Draghi ha detto questa frase interessante: “Ci si aspetta che la politica economica non aggiunga incertezza al cambiamento”. Da quando a Bruxelles si è insediata la Commissione von der Leyen, è evidente il cambio di passo dell’Unione europea, soprattutto nel merito della politica economica. In questo senso, la pandemia è stata un semplice acceleratore di processi, in realtà già nei mesi di novembre e dicembre 2019 la Commissione stava sistematizzando idee molto importanti. Tant’è che alla fine di gennaio 2020 – quando come da consuetudine i leader mondiali si sono trovati a Davos in occasione del World Economic Forum – dentro la discussione su come avviare una trasformazione profonda del capitalismo e rendere sostenibili le attività produttive sul piano ambientale, Ursula von der Leyen ha presentato il Green New Deal europeo. Oggi, silenziosamente, quel grande programma ricade dentro il più ampio Recovery fund.



Per tornare alle parole di Draghi, il Green New Deal nasce per dare certezza al cambiamento. Per il momento, naturalmente, molto è ancora nelle intenzioni. Ma non c’è dubbio che vi siano stati anni duri dove non si era stati capaci di investire nemmeno nelle intenzioni. Oggi l’Unione europea ha messo a punto questo piano e ha anche messo sul piatto una quantità di risorse mai vista, ricorrendo per la prima volta al debito comune.



In realtà, la terminologia Green New Deal arriva dagli Usa, quando nel 2019 i democratici hanno proposto al Congresso un pacchetto così chiamato per far fronte ai cambiamenti climatici oltre che alla disuguaglianza economica. Ma sappiamo che negli Stati Uniti, anche per un atteggiamento di Trump piuttosto distaccato, tutto ciò che ha a che fare con la questione ambientale – benché le industrie se ne interessino eccome – non ha molta fortuna sul piano comunicativo. E così, Green New Deal è diventato intento – per non dire programma – ben più condiviso in Europa, il cui establishment lo ha scelto come fattore identitario.



L’Europa è politicamente l’attore che più ha spinto per la lotta al riscaldamento globale e al cambiamento climatico. E la crisi del multilateralismo e la regionalizzazione della globalizzazione accentuerà questa opzione. La crisi dei rapporti in particolare tra Usa e Cina, il crollo del commercio mondiale e il back reshoring delle produzioni rendono sempre meno multilaterali le relazioni internazionali, a favore di una macro-regionalizzazione degli scambi che, come già detto, deve puntare al rafforzamento della domanda interna a queste aree. Tuttavia, il regionalismo non è una scoperta recente: la novità è che oggi si chiede al mercato regionale non solo di crescere la sua domanda interna e di favorire i suoi membri, ma anche di darsi obiettivi comuni dal punto di vista della produzione.

Il Green New Deal essenzialmente poggia su questi obiettivi ed è fondamentalmente la sfida che l’Europa sta lanciando alle due superpotenze americana e cinese. Premesso che nel ciclo che viene capiremo se lo saranno ancora, Usa e Cina hanno dominato l’economia mondiale in questi anni e l’Europa ha faticato a stare al passo, tanto che dal 2017 non si è più registrata crescita significativa nel Vecchio continente. Consideriamo inoltre che negli ultimi 5 anni l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in aziende americane e cinesi (fonte Mc Kinsey Global Institute): è ovvio che non investire in innovazione generi poi questo ritardo sui mercati.

Il Green New Deal ha questa finalità, di rilanciare – attraverso le risorse del Recovery fund – le produzioni europee, di fare dell’Europa il centro della produzione mondiale dell’auto elettrica, di andare spediti verso la carbon neutrality (2050) e l’energia pulita, nonché di essere un esempio per il mondo nella lotta al cambiamento climatico, rendendo la nostra vita e le nostre produzioni sempre meno dipendente dai combustibili fossili e, più in generale, dalle materie prime.

Oggi il Commissario europeo agli Affari economici, Paolo Gentiloni, interverrà anch’egli al Meeting proprio sul tema del Green New Deal. Ribadirà l’impegno europeo e solleciterà l’Italia a crederci. Nel giro di tre anni, con la montagna di risorse che l’Europa sta mobilitando, vedremo avanzare le economie più mature (Germania e Francia in particolare, oltre a UK); e comprenderemo anche che tipo di futuro attende Usa e Cina, due Paesi per cui non sarà affatto semplice tornare ai livelli pre-pandemici.

Ma cosa dobbiamo aspettarci dal nostro Paese? Chi scrive ha pochi dubbi sul fatto che ancora una volta scopriremo la validità del nostro sistema produttivo. Non a caso siamo ancora il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Certo, c’è una grossa fetta di imprese che non riesce a innescare processi innovativi, che fondamentalmente vuol dire avviare percorsi di digitalizzazione. Lontano da innovazione e digitale, sarà sempre più difficile stare sul mercato. Ma c’è una parte del nostro sistema fatta di aziende competitive, dinamiche, eccellenti, ben inserite nelle catene globali del valore, i cui prodotti generano ricadute innovative dentro le grandi filiere. Saranno questi gli attori principali del Green New Deal. Auguriamoci che la politica di casa nostra non renda loro la vita troppo difficile e che sia capace di sostenere il sistema dentro questo processo di cambiamento. Oltre che di riuscire a resistere alla meglio alle intemperie d’autunno, oramai alle porte.

Twitter: @sabella_thinkin