È oramai fatto noto – visto che la stampa e le televisioni hanno dato notevole risalto alla notizia – che dal 15 ottobre al 31 dicembre i lavoratori, per recarsi nei luoghi di lavoro, debbono esibire documentazione che attesti di aver ricevuto la vaccinazione contro il Covid (il c.d. green pass) oppure di aver effettuato nelle 48 ore precedenti un tampone che attesti lo stato di non positività del soggetto.
È stata data notevole diffusione alle conseguenze del mancato possesso di tali documenti, e in questa sede non è necessario dilungarsi oltre, se non per ricordare che è escluso che la mancata esibizione del green pass o di un tampone possa esporre a sanzioni disciplinari.
Su sollecitazione delle imprese, soprattutto quelle che hanno un’organizzazione di lavoro su turni e che temevano la gestione potenzialmente caotica degli ingressi e degli accertamenti, è stata poi prevista la facoltà per i datori di lavoro di richiedere la preventiva comunicazione del possesso dei “lasciapassare” previsti. Le norme nulla dicono sulla possibilità o meno di sanzionare il dipendente che non proceda alla comunicazione, o ne faccia una falsa; a mio avviso, dunque, tale possibilità esiste.
Fatte queste premesse, la casistica che si è presentata a chi si occupa di diritto del lavoro è varia, e dimostra che la realtà spesso supera la fantasia; la presento in ordine sparso, e mi si perdonerà l’esposizione leggera.
GREEN PASS, IL CASO DEGLI “OPPORTUNISTI”
Un primo caso è dato dai dipendenti che chiameremo “gli opportunisti”: l’idea di fondo è che ogni problema può essere una opportunità, e dunque questi soggetti, considerato che le norme impediscono di accertare la causa della mancata presentazione del certificato o del tampone, han deciso di prendersi una pausa dal lavoro, una sorta di aspettativa non retribuita. In altri termini, a prescindere dal fatto se siano vaccinati o meno e potendosi permettere qualche mese senza stipendio, si pigliano una vacanza non pagata, magari fino a fine anno. Un comportamento del genere è di certo legittimo.
GREEN PASS, IL CASO DEI “VENDICATIVI”
Ci sono d’altra parte i datori di lavoro che chiameremo “i vendicativi”, che non se la sentono di giustificare il comportamento irresponsabile di chi non si vaccina (un po’ come le persone che frequentavano l’anno scorso i parchi per far le foto e denunciare chi passeggiava senza cagnolino o con la mascherina messa male): si tratta di quelli che con irritazione si son trovati tra capo e collo, oltre ai mille problemi che la conduzione di un’impresa reca, anche il fastidioso compito di fare gli ispettori sanitari per conto del Governo, come quando la maestra alle elementari dopo la ricreazione prima di entrare in classe ci controllava per vedere se avevamo le mani pulite. Ebbene, questi datori, per la comunicazione dello stato vaccinale, impongono ai lavoratori oneri non previsti dalla norma; a loro non basta che il dipendente dica (per mail, per raccomandata, o in altra modalità) che non ha fatto il vaccino e non farà il tampone, ma vogliono che questa comunicazione sia fatta tutti i giorni, di persona, presentandosi ai cancelli dell’azienda anche (e soprattutto) se il lavoratore ha il turno delle 6 di mattina o quello notturno! Mi spiace per questi moralizzatori della società, ma si tratta di oneri ingiustificati, che non trovano fonte nella legge e sono dunque illegittimi.
GREEN PASS, CI SONO POI GLI “INTERNAUTI DEL DIRITTO” E I “PURISTI AMANTI DELLA SORPRESA”
Ci sono poi gli “internauti del diritto”. Sono quei lavoratori che non han fatto il vaccino e a cui magari un po’ brucia spender soldi per i tamponi; e han trovato in rete modelli di letterine (di certo scritte da avvocati) con le quali in giuridichese stretto si declina l’invito di comunicare alcunché, accampando ragioni di riservatezza e citando roboanti sentenze delle corti europee; oppure si chiede al datore di rimborsare i soldi spesi per i tamponi (dietro esibizione, ça va sans dire, di regolare ricevuta). Inutile dire che l’obbligo non può essere aggirato e che i tamponi se li paga il soggetto onerato.
Ci sono poi i “puristi amanti della sorpresa”, ossia quei lavoratori che, non essendo vaccinati, devono ricorrere ai tamponi, e – nel comunicare al datore il loro stato – giocano sul fatto che al momento in cui scrivono non sanno se hanno un tampone o meno, non sanno se lo avranno positivo o negativo, e dunque magari si dicono non in possesso di alcunché, salvo presentarsi al lavoro il giorno dopo con un bel tampone negativo o viceversa si dicono felicemente “tamponati”, salvo presentarsi al lavoro con un vaccino scaduto. Il mio socio di studio (che ama i paradossi che evidenziano le contraddizioni delle norme) mi assicura che un comportamento del genere è assolutamente legittimo; a me sembra che violi comunque il principio di buona fede (e anche quello di buona educazione, e anche il buon gusto), e dunque suggerirei al datore di sanzionare comportamenti simili.
Il catalogo è dunque questo.
Ed io allora mi chiedo: ma non sarebbe stato più semplice introdurre un obbligo generale e stretto di vaccinazione? O forse, per non sollevare un potenziale conflitto sociale nelle piazze, si è voluto individualizzarlo e trasferirlo nei luoghi di lavoro?
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