Dando uno sguardo alle disposizioni dell’ultimo decreto legge n. 111/2021 in materia di scuola, università e green pass, oltre a qualche svista di tecnica legislativa (come, ad esempio, l’erronea numerazione dei commi dell’art. 9 ter che è stato inserito nel d.l. n. 52/2021) non mancano alcune regole non soltanto di complessa attuazione, ma anche ambigue e di non facile giustificazione. Sicché non va escluso che, qualora si giunga al giudizio della Corte costituzionale, se ne possa poi accertare l’illegittimità costituzionale, in specie per quanto riguarda la violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza, e dei diritti al lavoro e all’istruzione.   



Partiamo dalla prima regola: le attività didattiche nelle scuole (a partire dalla scuola d’infanzia) dovranno svolgersi “in presenza”, mentre nelle università andranno svolte “prioritariamente” in presenza. Perché questa differenza? E cosa significa “prioritariamente”?  Significa che agli studenti universitari – ma non a quelli della scuola – dovrà essere assicurato anche l’insegnamento in streaming? Perché questa differenza? Perché non essere più chiari?



Passiamo poi all’obbligo delle mascherine: nelle università – ma non nelle scuole – vi si potrà derogare se alle attività parteciperanno solo studenti con ciclo vaccinale completo o con certificato di guarigione in corso di validità. Ma come potranno essere accertate queste due specifiche condizioni, se, come noto, il green pass non consente, né può consentire di accertare il presupposto che ne ha determinato il rilascio? Gli studenti universitari, dunque, saranno obbligati a presentare un’altra documentazione con i propri dati sanitari? E a chi saranno comunicati questi dati? Potranno essere controllati, registrati e conservati? E da chi? In ogni caso, non appare costituzionalmente legittimo stabilire che il diritto di istruzione, neppure in parte, sia subordinato o a un evento casuale – la guarigione da una malattia – o al compimento di un trattamento sanitario, la vaccinazione, che non è imposto da alcuna norma di legge.



Non è chiara, poi, è la ragione che giustificherebbe, in caso di provvedimenti ulteriormente restrittivi adottati dai presidenti delle Regioni e dai sindaci per le zone rosse o arancioni o per singoli istituti, il mantenimento delle attività in presenza qualora sia “necessario” l’uso di laboratori: perché anche in questi casi particolarmente gravi il rischio del contagio dovrà considerarsi egualmente accettabile e, dunque, gli studenti dovranno obbligatoriamente partecipare ad attività didattiche in presenza?

Poi, circa l’obbligo di possedere ed esibire il green pass, questo obbligo è stato imposto al personale scolastico e universitario, così come agli studenti universitari. A tal proposito, però, non è in alcun modo comprensibile la distinzione tra gli studenti delle scuole e quelli universitari: la diversa età, forse, renderebbe gli studenti universitari potenzialmente più contagiosi? O, invece, vi sarebbero minori rischi in caso di vaccinazione? Oppure si tratta di una valutazione meramente fattuale relativa alla difficoltà di ottenere il consenso dei genitori degli studenti minorenni? Quali sarebbero, insomma, le condizioni oggettive che, in un caso, giustificano la presenza di un obbligo e, nell’altro caso, lo escludono? 

Relativamente, poi, alle sanzioni imposte, per il personale scolastico e universitario si prevede che il mancato rispetto dell’obbligo equivalga a “assenza ingiustificata” e che dopo il quinto giorno comporti la “sospensione del rapporto di lavoro”. Pur con qualche difficoltà, si può comprendere l’ossimoro legislativo: se il lavoratore si presenta al lavoro e risulta violato il predetto obbligo, gli dovrà essere precluso l’accesso e la conseguente assenza sarà considerata per legge “ingiustificata”. Tuttavia, nel decreto-legge si scrive che ai dirigenti scolatici e ai “responsabili” (non meglio precisati) delle università spetta il compito – peraltro sanzionato – di verificare il rispetto delle regole. In sostanza, essi devono predisporre i sistemi di accertamento all’entrata dei luoghi di lavoro. Ma, in violazione del principio di legalità, non è espressamente prescritto che, in caso di accertamento – per così dire, in flagranza – della violazione dei predetti obblighi, si debba precludere l’accesso al luogo di lavoro da parte del personale presuntivamente riottoso.

Allora, mancando un’apposita norma di legge, chi si assumerà questa responsabilità e ne sopporterà le relative conseguenze in caso di contestazione? E, poi, sino a quando durerà la “sospensione” del rapporto di lavoro? Sino ad un’apposita comunicazione da parte del lavoratore o dal momento in cui quest’ultimo si presenterà al lavoro con il green pass? E cosa accadrà in caso di accertamento della violazione del green pass: ne dovranno conseguire anche provvedimenti disciplinari o addirittura responsabilità per danni all’erario (dato che l’assenza comporterà il ricorso ai supplenti di cui si prevede l’apposito finanziamento)? Soprattutto si può prospettare il fondato dubbio di costituzionalità relativo ad una norma che condiziona l’esercizio del diritto fondamentalissimo al lavoro o al verificarsi di un evento del tutto casuale – la guarigione dalla malattia – oppure al doversi sottoporsi ai ripetuti oneri (finanziari, amministrativi, procedurali, etc.) collegati alla sottoposizione a tampone, ovvero, ancora, ad un trattamento sanitario, la vaccinazione, che, ripetiamo, non è obbligatoria per legge. 

Per non parlare, infine, di cosa accadrà agli studenti universitari in caso di violazione dei predetti obblighi. Anche in questo caso non si prevede espressamente l’immediata esclusione delle attività didattiche, e, per di più, si prescrivono soltanto “verifiche a campione con le modalità individuate dalle università”. In sostanza, mentre vi sarà un costante presidio per l’accesso del personale, non si prevedono – e dunque si impediscono – accertamenti permanenti e diffusi per l’ingresso degli studenti nelle università.

Del resto, per accertare la violazione dell’obbligo relativo al green pass da parte degli studenti universitari saranno necessari accertamenti compiuti, come noto, dalle forze di polizia, dalla polizia municipale o dalle forze armate (e dunque, non dal personale universitario), e da cui conseguirà una sanzione pecuniaria comminata dal prefetto, e, in caso di violazione reiterata, la sanzione prevista (da 400 a mille euro) può essere soltanto raddoppiata.

Insomma, per un verso potremo ritrovarci università blindate dalle forze armate, per altro verso chi avrà qualche disponibilità economica potrà superare agevolmente l’intero obbligo del green pass. Nulla, invece, si prescrive su eventuali sanzioni disciplinari, né è prevista – e dunque non può essere comminata – l’esclusione dalla partecipazione alle successive attività didattiche sino al momento in cui si entrerà in possesso del green pass. In ogni caso, qualora l’applicazione di questa norma comportasse la preclusione dell’accesso alle attività didattiche in assenza di un obbligo di vaccinazione stabilito con legge, è evidente che il diritto all’istruzione sarebbe compresso in relazione ai presupposti del green pass, e dunque anche in relazione ad un trattamento sanitario non imposto da un’apposita norma di legge.

In definitiva, quando si passa dalle attività per così dire voluttuarie (cinema, musei, bar, ristoranti, etc.), a fondamentali diritti di cittadinanza, come il lavoro e l’istruzione, il green pass mostra tutta la sua intrinseca vaghezza, ed è necessario valutare con estrema attenzione la ragionevolezza dei limiti che ne conseguono sulle libertà individuali e collettive. Non vogliamo neppure pensare, ad esempio, a cosa potrebbe accadere se si condizionassero i diritti politici sulla base del green pass! Il grave rischio, insomma, è che la cosiddetta “spinta gentile” alla vaccinazione di massa mediante il green pass sia il periglioso passaggio verso irrimediabili faglie e sanguinosi conflitti proprio nei luoghi più delicati e sensibili della vita sociale, dove ciascuna persona non è un “utente”, ma è il componente attivo e consapevole di una comunità cui il legislatore non può imporre alcuni comportamenti e censurarne altri mediante norme imprecise e balbettanti. Né basta appellarsi a evanescenti obblighi morali. Occorrono parole chiare e precise assunzioni di responsabilità. 

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori