Il 15 ottobre è sempre più vicino e c’è il rischio che l’obbligo di green pass sul luogo di lavoro possa creare dei problemi alle imprese. In questi giorni si stanno rincorrendo molte cifre sui lavoratori non vaccinati e che dovrebbero quindi sottoporsi a tampone rapido 2-3 volte alla settimana per avere il certificato verde necessario a lavorare e a non perdere la retribuzione. Secondo la Fondazione Gimbe, potrebbero essere necessari 12-15 milioni di tamponi a settimana, un numero che andrebbe al di là della capacità di farmacie e strutture sanitarie. Nel comparto agricolo, tra l’altro alle prese con significativi rincari delle materie prime, come ci spiega Ettore Prandini, presidente della Coldiretti, “c’è stata un’importante spinta nelle ultime settimane per sollecitare dipendenti e collaboratori, anche stranieri, a sottoporsi al vaccino e la risposta è stata buona. Possiamo dire di essere in linea con il dato nazionale, per cui l’85% delle persone che operano nel comparto agricolo è vaccinato”.



Vedete delle criticità nell’applicazione concreta della normativa sull’obbligo di green pass sui luoghi di lavoro che scatterà da venerdì?

Noi riteniamo che l’obbligo di green pass possa essere fondamentale per dare continuità all’attività svolta dalle nostre imprese, ma crediamo che occorra una semplificazione dei processi di controllo. Se, per esempio, si potessero individuare i dipendenti che sono vaccinati e hanno quindi un green pass con determinate caratteristiche di durata si potrebbe evitare l’obbligo di controllo giornaliero e snellire così quelle che sono le procedure di verifica imposte agli stessi imprenditori. Contestualmente avere una mappatura delle persone che, anche per motivi di salute, non sono vaccinate consentirebbe di effettuare le verifiche sul loro green pass ogni 48 ore. Ovviamente un discorso a parte andrebbe fatto per chi entra in azienda come collaboratore saltuario: in questo caso la verifica andrebbe fatta puntualmente.



Al momento però le attività di verifica non consentirebbero al datore di lavoro di sapere se il green pass è rilasciato per guarigione, vaccino o tampone negativo e nemmeno la sua scadenza.

Bisognerebbe rendere fruibili questi dati all’impresa, cui viene messa in capo la responsabilità dei controlli, in modo da consentire una semplificazione di tale attività.

Un lavoratore senza green pass non potrà lavorare, non rischierà il licenziamento, ma il datore di lavoro potrà sostituirlo solo se ha meno di 15 dipendenti. Questa previsione normativa è concretamente attuabile nella realtà delle aziende?



Una sostituzione per un periodo breve potrebbe essere fattibile appoggiandosi ad agenzie interinali, ma nel caso di attività che richiedono una certa professionalità diventa impossibile. Una soluzione potrebbe essere quella di poter utilizzare una forma contrattuale snella come lo erano i voucher, in modo da poter richiamare in servizio per brevi periodi ex dipendenti o collaboratori da poco in pensione che hanno determinate caratteristiche che consentirebbero di rendere attuabile la sostituzione. Una soluzione del genere potrebbe essere utile non solo in agricoltura, ma anche in altri settori.

Queste soluzioni che chiedete si potrebbero attuare in poco tempo, considerando l’imminenza del 15 ottobre?

In realtà è da un po’ di tempo che abbiamo presentato queste richieste, ma non c’è stata ancora un’apertura reale in termini di confronto da parte del Governo. Noi continuiamo a spingere perché si trovino sistemi che siano sempre più snelli, veloci, meno carichi di burocrazia per le imprese, e che diano certezze ai nostri collaboratori e dipendenti. Mai come ora è fondamentale garantire la continuità delle aziende produttive. Diversamente rischiamo di creare una situazione per la quale aumenta la necessità di reperire forza lavoro, ma gli adempimenti burocratici rallentano qualsiasi passo concreto verso nuove assunzioni.

Quanto il vostro comparto sta risentendo del rincaro delle materie prime di questi mesi?

Per determinati settori, come quello cerealicolo, questo aumento dei prezzi arriva dopo un periodo in cui i prodotti erano assolutamente sottopagati. I valori attuali, quindi, sembrano finalmente riconoscere il lavoro svolto dagli imprenditori. Ci sono però delle filiere per cui questi rincari stanno comportando seri problemi e che pagano anche un’anomalia sorta dopo lo scoppio della pandemia.

A che cosa si riferisce?

Per fare un esempio, oggi viene riconosciuto agli imprenditori agricoli un prezzo del latte che paradossalmente è più basso rispetto a quello del 2019. Questo perché in generale, nell’anno della pandemia, le industrie di trasformazione sono riuscite a imporre alla grande distribuzione un aumento dei prezzi finali, diminuendo nel contempo quelli pagati alle aziende agricole. Tutto questo ha portato a un aumento senza precedenti dei fatturati e degli utili di esercizio delle industrie di trasformazione, ma ha messo in difficoltà sia i consumatori, sia, in misura maggiore, le imprese agricole. Anche per questo abbiamo un tavolo di discussione aperto con il ministero delle Politiche agricole, visto che ancora non viene riconosciuto un adeguamento dei prezzi nonostante l’aumento dei costi delle materie prime.

Quali sono i settori particolarmente in sofferenza?

Sicuramente tutti i comparti zootecnici, nessuno escluso. Le cose vanno un po’ meglio nel settore cerealicolo, visto il rialzo dei prezzi dei prodotti. Ma i rincari energetici, dei costi degli imballaggi e del legno stanno incidendo anche sul confezionamento dei prodotti vitivinicoli e nella produzione dell’olio. Nel settore ortofrutticolo, invece, stiamo scontando un problema legato agli effetti dei cambiamenti climatici, alla siccità, alle forti grandinate e alle gelate di aprile, con una perdita di prodotto in termini quantitativi.

La vostra richiesta è quindi quella di un adeguamento dei prezzi riconosciuti alle imprese agricole?

Guardi, ci sono aziende che stanno attraverso un momento veramente critico, perché i costi di alimentazione del bestiame e di produzione sono aumentati mediamente del 30-40% rispetto al 2020, quindi non c’è alternativa. Noi crediamo si possano trovare delle formule che diano respiro alle nostre imprese senza pesare sul consumatore finale, anche perché dobbiamo cercare di evitare una fiammata inflattiva nei prossimi mesi, che potrebbe vanificare buona parte della ripresa economica del Paese.

Quali formule avete in mente?

Riteniamo si possa operare sulla fiscalità. Gli aumenti dei prezzi hanno infatti portato a un incremento delle entrate fiscali. Se si decidesse di mantenere invariato il gettito si potrebbe diminuire l’Iva sui generi alimentari di modo che l’adeguamento dei prezzi riconosciuti alle imprese agricole non venga pagato dai consumatori, che vedrebbero invece invariati i prezzi finali dei prodotti. In questo modo il carrello della spesa non costerebbe di più e si riporterebbe in equilibrio la situazione di diverse filiere.

Secondo lei, nei prossimi mesi potrebbe esserci un riequilibrio dei prezzi delle materie prime alimentari?

Sicuramente non siamo di fronte a una bolla speculativa come quella di qualche anno fa i cui effetti sono durati pochi mesi. Ci sono una serie di elementi che fanno pensare che dovremmo convivere con questa situazione per almeno altri sei mesi, ma difficilmente si tornerà ai livelli pre-Covid. Sarà intanto importante monitorare alcuni fattori.

Quali?

Il primo è il costo dei trasporti marittimi. Ci sono infatti alcuni prodotti come grano duro, grano tenero, mais e soia, per i quali le nostre filiere non sono autosufficienti e che devono importare, sostenendo però crescenti spese di trasporto. Nelle ultime settimane, per esempio, c’è stata una leggera flessione del prezzo della soia totalmente vanificata dall’aumento del nolo delle navi. Bisognerà poi guardare all’atteggiamento di alcuni Paesi, particolarmente forti in termini economici, per quel che riguarda l’acquisto diretto delle materie prime. La Cina, infatti, negli ultimi sei mesi con i suoi acquisti ha inciso significativamente sulla disponibilità di alcuni prodotti a livello mondiale. Occorrerà poi vedere cosa accadrà sul fronte dei cambiamenti climatici, che hanno portato, per esempio, a quote di produzione del Canada mai così basse. Infine, non vanno trascurate le scelte politiche che incidono sulla disponibilità dei prodotti agricoli. Biden, per esempio, negli Stati Uniti ha spinto perché una parte della produzione cerealicola sia destinata alla realizzazione di biocarburanti. Questo ovviamente aumenta l’indisponibilità di alcuni prodotti.

(Lorenzo Torrisi)

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