È un momento chiave per il governo di Mario Draghi e per lo stesso premier. Arrivato per garantire l’Europa sull’uso dei fondi italiani del Pnrr, il presidente del Consiglio è finito anche per legare il proprio nome all’impiego massiccio del green pass. Un utilizzo così esteso che non ha uguali in altri Paesi, che crea gravi problemi a intere filiere industriali e che sta costringendo Draghi a prendere le parti di un ministro, Luciana Lamorgese, che ieri in Parlamento ha confermato tutti gli interrogativi sull’operato del Viminale e delle forze dell’ordine nella manifestazione di sabato.



Nelle proteste contro il green pass ormai i no vax sono una parte minoritaria. Il grosso della contestazione arriva da migliaia di lavoratori e di imprenditori, che lamentano non solo controlli e perdite di tempo, ma il pericolo che si blocchino intere filiere come quelle della distribuzione e della logistica. Gli operatori dei trasporti – e anche di molti altri settori – si confrontano con una concorrenza estera che non ha il green pass e si trovano penalizzati. Il rischio che rallentino sia le forniture alimentari sia quelle di materie prime per le fabbriche è altissimo. Gli scioperi di domani potrebbero paralizzare molte attività produttive. Il governo ha tirato dritto sulle sue scelte, senza allentare le misure e senza interrogarsi sui costi e la disponibilità dei tamponi. C’è da chiedersi se, davanti a questi ostacoli che non sono legati all’ideologia no vax, l’esecutivo sappia davvero che cosa deve prepararsi a gestire, oppure se scherzi con il fuoco.



La strana gestione delle proteste di piazza autorizza qualche domanda sulle scelte fatte. Il Viminale ha sottovalutato le protesta di piazza evitando l’attività di prevenzione che avrebbe tenuto lontano delinquenti e facinorosi. La narrazione di un ritorno galoppante del fascismo ha preso il sopravvento nel dibattito pubblico. La Cgil ha reagito all’assalto di Forza Nuova ed altri esagitati con una manifestazione che si svolgerà alla vigilia del voto per i ballottaggi di Roma e Torino, oltre che di altre città: un appuntamento che inevitabilmente si trasformerà in un formidabile spot per i candidati del centrosinistra. E l’abbraccio di lunedì tra Mario Draghi e Maurizio Landini davanti alla sede della Cgil ha fornito un’alta legittimazione istituzionale all’operazione del sindacato.



Ma i guai del premier rischiano di affacciarsi anche in politica estera. Nonostante Draghi abbia parlato di “un successo” in quanto sarebbe la “prima risposta multilaterale” alla presa di potere dei talebani, il G20 straordinario sulla situazione in Afghanistan si è svolto senza due protagonisti del calibro del russo Vladimir Putin e del cinese Xi Jinping, che non si faranno vedere nemmeno al G20 ordinario di Roma a fine mese. Draghi ha sollecitato invano la presenza di Russia e Cina finendo per assumere una posizione all’apparenza strana, quasi una presa di distanza dagli Stati Uniti che sono stati i suoi primi e principali sostenitori. L’ex presidente della Bce era arrivato a Palazzo Chigi con un grosso credito personale oltreoceano. Le ultime scelte rischiano però di rimetterlo in discussione.

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