Insieme al Meeting di Rimini, oggi prende il via la serie di sei incontri, dal titolo “Il lavoro che verrà”, proposti dalla Fondazione per la Sussidiarietà. Tra gli ospiti del primo talk – insieme al ministro del Lavoro Andrea Orlando, al ministro per le Pari opportunità Elena Bonetti, al Group Chief Executive Officer di Randstad Marco Ceresa, al presidente di Number1 Renzo Sartori e al presidente della Fondazione per la Sussidiarietà Giorgio Vittadini – ci sarà anche Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, che ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande.
Partiamo da “Il lavoro che verrà”, titolo della serie di incontri cui prenderà parte al Meeting di Rimini. Soprattutto dopo lo scoppio della pandemia si temono cambiamenti importanti nell‘organizzazione del lavoro, oltre che gli effetti delle rapide trasformazioni tecnologiche sull‘occupazione. Quali risposte può dare il sindacato a queste preoccupazioni?
Il sindacato deve rispondere con gli strumenti della contrattazione e della rappresentanza impegnandosi su tre direttrici: responsabilità, innovazione e partecipazione. Deve ambire a entrare nei processi di decisione assicurando un governo concertato della transizione digitale, ecologica ed energetica. Gli assi lungo i quali operare sono l’organizzazione del lavoro, le transizioni tutelate, il contrasto alla polarizzazione crescente tra lavoro qualificato e povero attraverso un grande piano sulla formazione e sulla riqualificazione delle competenze, specialmente digitali. Dobbiamo agire su questi snodi, orientando le vele del cambiamento su traguardi socialmente rilevanti, legando investimenti e riforme alla nascita di una nuova economia sociale di mercato fondata sulla centralità della persona e sul lavoro di qualità, ben tutelato, contrattualizzato e formato. Su questi temi va stretta una “Alleanza per il cambiamento”. Lavoro e Impresa devono cooperare nella definizione di alcune riforme strategiche condivise.
Dopo la presentazione del Piano Ue “Fit for 55″ è preoccupato per le conseguenze della transizione energetica sull‘industria italiana e per l‘occupazione a rischio visto che si parla di settori ad alta intensità di lavoro?
Le buone intenzioni nel Piano non mancano, ma sono minate da un metodo poco aderente alle condizioni reali dei tessuti produttivi di tanti Paesi, incluso il nostro. Un’impostazione calata dall’alto, non accompagnata dal necessario dialogo sociale, che rischia di trasformarsi in misure sbagliate, che potrebbero disarticolare il tessuto industriale di molti Paesi. Servono step intermedi, occorre uscire da impostazioni ideologiche e valorizzare l’utilizzo del gas naturale oltre che le energie rinnovabili e l’idrogeno. Non si può procedere sulla strada della decarbonizzazione senza soluzioni adeguate per i settori industriali e manifatturieri a rischio, da quelli altamente energivori, dai chimici al siderurgico, all’automotive, all’agricoltura… La sfida è quella di una transizione ecologica sostenibile sia sul fronte industriale e produttivo, sia sul versante sociale e occupazionale.
Il Presidente di Confindustria Bonomi ha parlato, in un’intervista alla Stampa, di “comportamenti dissennati” riferendosi alla posizione del sindacato riguardo all‘uso del green pass nelle aziende. Può chiarirci la posizione della Cisl su questo punto? Come replica a Bonomi?
Rispediamo le accuse a viale dell’Astronomia. Noi siamo in prima linea contro il virus dal primo giorno: ci siamo assunti da subito forti responsabilità firmando accordi e protocolli decisivi che hanno permesso la ripartenza in sicurezza del sistema produttivo, stabilito regole per il contenimento del contagio nei luoghi di lavoro, fatto entrare il piano vaccinale nelle fabbriche. Siamo impegnati quotidianamente per far camminare informazione e comunicazione negli ambienti di lavoro pubblico e privato, nelle comunità locali e nei territori a sostegno dei vaccini che rimangono l’unica arma decisiva per sconfiggere il virus. Oggi diciamo una cosa molto semplice.
Quale?
Il green pass nei luoghi di lavoro non può essere un modo surrettizio per introdurre l’obbligatorietà del vaccino. Bisogna varare una legge per questo. Sfidiamo Governo e Parlamento a farlo, se si ritiene necessario. Altra cosa è la gestione degli spazi comuni nei luoghi di lavoro, a partire dalle mense, regolata dai protocolli e dagli accordi di questo anno e mezzo. Su questo siamo noi a dire a Confindustria, alle altre rappresentanze datoriali e allo stesso Governo che dobbiamo esercitare protagonismo aggiornando quelle intese. Noi siamo pronti e non accettiamo lezioni da nessuno. Gli industriali, prima di lanciare giudizi, dovrebbero almeno assicurare la ripartenza delle vaccinazioni in azienda, ferme a causa della miopia di tante realtà, e imporre il rispetto dell’accordo del 29 giugno contro i licenziamenti. La prima responsabilità che dobbiamo al Paese è la responsabilità sociale che tanti gruppi e tante multinazionali faticano ancora a digerire. Dobbiamo unire tutto il fronte della rappresentanza sociale, e non dividerlo con queste sterili polemiche.
La riforma degli ammortizzatori sociali sarà cruciale per l’autunno, visto che verranno meno le 13 settimane di Cig delle aziende in crisi frutto dell‘accordo che avete raggiunto con Governo e industriali dopo lo sblocco dei licenziamenti che ha appena ricordato. Cosa pensa della proposta presentata dal ministro Orlando? Rischia di essere troppo gravosa per le Pmi? E riguardo le risorse necessarie: ricorrere alla fiscalità generale non significherebbe andare a pesare su chi le tasse le paga sempre, ovvero lavoratori dipendenti e pensionati?
Nelle proposte del Governo ci sono molti titoli che rispondono alle nostre rivendicazioni. Ma i titoli, ovviamente, non bastano. Questo è il momento della concretezza. Bisogna muoversi insieme e farlo presto, perché il 31 ottobre, data in cui il blocco dei licenziamenti verrà meno per tutti, è dietro l’angolo. La via è quella di un sistema inclusivo, mutualistico, assicurativo, semplificato, universale ma non “unico”, che superi la cassa in deroga, valorizzi l’apporto fondamentale della bilateralità e tenga dentro anche le aziende con meno di 6 dipendenti. Bisogna poi rafforzare Naspi e Dis-Coll, estendere l’applicabilità dei contratti di espansione e di solidarietà. Quanto alla copertura diciamo che serve un periodo di transizione a carico della fiscalità generale, verso un’architettura a regime che preveda aliquote differenziate e sostenibili anche dalle Pmi.
Si parla di modificare il Reddito di cittadinanza? È d‘accordo?
Il Reddito di cittadinanza ha dato risposte di tenuta sociale in un momento nero della storia repubblicana, ma ha fallito sotto il profilo “generativo”. Ha funzionato bene come strumento di contrasto alla povertà e per questo segmento va confermato, ma è stato un vero fallimento sul collegamento con le politiche attive per il lavoro. È una misura che va cambiata, rimodulata, ma non smantellata.
Cosa occorre fare?
Quello che serve è un enorme salto di qualità sui temi del lavoro, con il più grande investimento di sempre sulle politiche attive. Occorre una rete universale che assicuri a tutti sostegno al reddito legato a percorsi formativi di qualità e orientamento reale nel mercato del lavoro. Ci sono da potenziare mezzi e personale dei Centri per l’impiego, da incrociare le banche dati, da coinvolgere le Agenzie per il lavoro, che conoscono i sistemi produttivi locali. I lavoratori in Cassa integrazione e in Naspi vano inclusi in percorsi di apprendimento, che esaltino i Fondi interprofessionali su cui ancora insiste un odioso prelievo di 120 milioni l’anno, un vero e proprio “scippo” di risorse delle imprese e dei lavoratori. Vanno rilanciate tutte le componenti della filiera della formazione, dalla scuola all’università, dagli Its al sistema della formazione professionale, all’apprendistato e al modello duale e introdotto il principio universale del diritto soggettivo all’apprendimento continuo. Bisogna costruire le condizioni di una transizione ai nuovi lavori tutelata per tutti. E agganciare – ora che ci sono le risorse – un grande piano di riqualificazione delle competenze quale chiave del lavoro che cambia.
La cronaca recentemente è tornata a porci di fronte al dramma delle morti sul lavoro. Leggi e controlli non bastano?
I numeri sono quelli di una guerra invisibile, di una strage inascoltata che va avanti da decenni, tra gli annunci della politica. Abbiamo 1.200 morti ogni anno, a cui si aggiungono altri d’eco e di migliaia di infortuni e malattie professionali. La situazione è ancora fuori controllo, come denunciano i numeri dell’Ispettorato del lavoro: 8 aziende su 10 tra quelle ispezionate sono fuori regola. Una condizione che invoca almeno 4 azioni immediate.
Quali?
Vanno prima di tutto aumentate le ispezioni, assumendo nuovi ispettori e medici del lavoro, occorre poi migliorare le sinergie e il coordinamento tra le istituzioni coinvolte nella “filiera” della sicurezza, con un salto di qualità anche nell’uso della tecnologia e nell’incrocio di banche dati dei vari enti. È necessario introdurre una “patente a punti” per le aziende, imponendo la fine delle attività in caso di gravi violazioni e mancanze. Infine, va data piena attuazione al testo unico del 2008. Su questi punti Governo e Autonomie locali devono dare segnali subito, rispondendo anche alle priorità espresse dal nuovo direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano. Inoltre, serve tantissimo investimento su prevenzione e formazione per accrescere la cultura della sicurezza. La sicurezza nei luoghi di lavoro non può essere vissuta da tante aziende come un costo, ma come un vero investimento sulla qualità del lavoro, la tutela del lavoro e anche come miglioramento degli indici reputazionali delle imprese.
Le proposte sindacali in tema previdenziale sono chiare da tempo. Quale considera “la proposta minima” che siete disposti ad accettare da parte del Governo, stante anche l‘attenzione ai conti pubblici che si dovrà avere?
La sostenibilità non ammette “minimi” o “massimi”. In vista della fine di Quota 100 vanno introdotti meccanismi più equi di pensionamento, perché le pensioni non sono un premio o un privilegio, ma un diritto. C’è da avviare un equilibrio nuovo che promuova un patto generazionale per assicurare da una parte l’ingresso di tanti giovani nel circuito produttivo, e dall’altra dignità e serenità a lavoratori che hanno dato il proprio contributo. In particolare, riteniamo necessario introdurre la possibilità di andare in pensione a partire dall’età minima di 62 anni con la possibilità di accedervi in ogni caso con 41 anni di contributi. Va valorizzato il lavoro di cura e sostenuta la maternità con il riconoscimento di almeno 1 anno di anticipo per figlio. Chiediamo poi di rendere strutturale l’Ape Sociale ed estendere le categorie di lavoratori gravosi e usuranti, come pure di istituire una pensione di garanzia per i giovani, dal momento che i lavori precari, part-time e il sistema contributivo non danno accesso a pensioni dignitose. Infine, va consolidato il sostegno alla Previdenza complementare e, per le pensioni in essere, estesa la 14ma e ripristinata la piena rivalutazione di tutti gli assegni pensionistici. E poi dobbiamo conquistare il traguardo di una Legge quadro sulla non autosufficienza per dare risposte concrete e dignitose a quanti vivono in difficoltà che non sono solo anziani.
(Lorenzo Torrisi)
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