Accusati di non essere altro che dei cloni dei Led Zeppelin (ma nel Terzo millennio chi è che non copia qualcosa dalla grande musica del passato) i Greta Van Fleet nonostante la giovane età avevano dimostrato nel loro disco di esordio di possedere più di una carta buona da giocarsi sul piatto. Che cosa vuol dire infatti fare musica rock oggi, che non è più quella che va per la maggiore, sostituita dal rap, la tra, il pop danzereccio, le macchiette di ogni tipo che travestendosi in modi improponibili si auto dichiarano innovatori e trasgressori? E’ rimasto poco di rock, è ovvio, la grande stagione è finita da un pezzo.
Ma i Greta Van Fleet hanno saputo dimostrare che nelle loro vene ne corre ancora parecchio, di avere buon gusto senza strafare, di sapere comporre canzoni avvincenti. E tanto basta. Adesso che finalmente escono con il secondo lavoro,“The Battle at Garden’s Gate” quello che è sempre la prova per ogni band o artista, dimostrano di essere cresciuti, eccome. Se si eccettua infatti Built by nations che si apre con l’innegabile riff di Whole lotta love (ma poi diventa altro) degli Zep, i Greta hanno realizzato un lavoro che a tratti suona maestoso, più prog che rock, a tratti folk, pieno di belle canzoni. Il consiglio allora è di cominciare dalla fine, con i quasi nove minuti dell’epica The weight of dreams, dove tra archi, vocalizzi altissimi e soprattutto un lungo assolo di elettrica che si eleva in spazi cosmici (ricordando i Jefferson Starship nei loro momenti migliori). Un brano coraggioso, affascinante e pieno di nostalgia per quelle grandi opere rock degli anni 70. Sì, perché i Greta Van Fleet sono senza dubbio un gruppo vintage che guarda e si ispira alla golden age del rock, ma facendola loro, e che colpa ne hanno se quel decennio è stato il momento migliore della storia del rock?
La loro capacità di scrivere anthem da cantare all’unisono in concerto (quando si potrà tornare ai concerti) è rara oggigiorno, come dimostra l’iniziale Heat above, una bella ballatona rock aperta da tastiere e poi batteria in crescente, con intervalli di chitarra acustica. Senza trucchi o artefici, semplice e diretta, quasi sei minuti di durata per un hit radiofonico che non è un hit radiofonico proprio per la lunghezza. Quasi tutti i brani infatti vanno dai 4 minuti ai sei, sette e anche otto, un intento che non favorirà i passaggi commerciali, ma che dimostra la loro serietà compositiva. My way soon è più tirata con un ottimo assolo di elettrica, Broken bell che inizia con chitarre arpeggiate è quasi folk poi entrano gli archi e un bell’assolo di chitarra che ne fanno quasi un classico del prog. Un disco ambizioso, quasi un concept album, quello dei tre fratelli Kiszka: “The Battle at Garden’s Gate riguarda la speranza e il superamento delle sfide che l’umanità deve affrontare. Viviamo in un mondo alimentato da istituzioni superficiali e questo album ci ricorda che sta a noi cantare fuori dal silenzio” ha detto Sam Kiszka. Un ruolo fondamentale lo ha senz’altro avuto il produttore Greg Kirstin, già con i Foo Fighters ma che loro hanno scelto per il suo lavoro con Paul McCartney.
Un disco che riflette sulla crescita personale e spirituale dei singoli membri durante la loro ascesa, partita dai tour nei bar rock di Detroit e Saginaw e arrivata agli spettacoli da headliner in tutto il mondo con oltre un milione di biglietti venduti in solo tre anni. “Durante la creazione di questo album, c’è stata una auto-evoluzione, grazie alle esperienze che abbiamo vissuto. Sicuramente dopo questo disco, siamo cresciuti in tanti modi; ci ha insegnato molto, sulla vita in generale, su noi stessi e sul mondo in cui viviamo”, spiega il cantante Josh Kiszka. “L’album riflette molto sul mondo che abbiamo visto e penso che rifletta anche tante verità personali“, afferma infine il chitarrista Jake Kiszka.
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