Senza buttarla troppo sulla politica e l’ideologia, il fatto che il romanzo alla base di Greyhound -Il nemico invisibile si intitolasse “Il buon pastore” dà un senso all’intera operazione, tutta costruita – per mano del mestierante Aaron Schneider – sulla figura divistica di Tom Hanks e sul suo ruolo di novello James Stewart: uomo buono, di sani principi, devoto a Dio, alla patria, alla famiglia e ovviamente al suo lavoro, che guida il gregge.
In questo caso, è una flotta di navi alleate che deve solcare l’Atlantico per raggiungere l’Europa durante l’inizio del coinvolgimento americano nella Seconda guerra mondiale: Krause è alla prima traversata e dovrà affrontare i sommergibili tedeschi che lo stanno aspettando.
Hanks adatta (da pastore e guida, appunto) il romanzo citato di Cecil Scott Forester e scrive un film di avventure marinare in chiave bellica che guarda al passato del cinema americano attraverso l’uso dell’iper-tecnologia contemporanea, anche in chiave distributiva essendo il film disponibile su Apple TV+ dopo che la pandemia ha bloccato le uscite cinematografiche.
Sicuramente la struttura e la forma pensano ai classici del cinema di guerra hollywoodiano: introduzione veloce che presenta il protagonista con rapidi tocchi e poi via in mezzo all’azione marinara, lunghe attese circondati dai nemici e poi strappi di azione e spettacolo che gli effetti speciali dovrebbero garantire nonostante il budget contenuto di 50 milioni di dollari. La confezione poi – dalla fotografia di Shelly Johnson alla colonna sonora in stile Hans Zimmer di Blake Neely – è praticamente impeccabile. E a ricordare il cinema di una volta ci dovrebbe pensare anche il lato umano della vicenda, l’attenzione ai personaggi, alle sfumature e ai dettagli delle loro personalità.
Però Greyhound ci ricorda anche che il buon pastore di un film non può essere il protagonista factotum e che il film non può piantarsi sulla sua figura senza che il personaggio faccia davvero qualcosa: a stagliare una figura non bastano due pantofole e lo sguardo da brav’uomo. A condurre un film in porta servirebbe un regista e Schneider probabilmente non è all’altezza del compito: la struttura del diario di bordo contraddice e vanifica il senso temporale della messinscena, le attese lunghe non producono molta suspense, né attimi intensamente umani, il pathos latita in una staticità che la breve durata non smussa, nemmeno lo spettacolo merita troppa considerazione, sembrando la versione in sedicesimi di un film di Roland Emmerich.
Un film consolatorio, nostalgico in un certo senso, che si inserisce in modo discutibile nei rivolgimenti che gli Usa stanno attraversando di questi tempi, ma che in ogni caso non rende giustizia nemmeno a quei valori, a quel tipo di sacralità conservatrice che ha reso grande Hollywood da Ford a Eastwood. Hanks vorrebbe portare il proprio cinema e i propri spettatori su quel solco, ma gli servono occhi da pastore più efficaci per riuscirci.