Beppe Grillo ha certamente il vantaggio di toccare le corde dell’insoddisfazione collettiva. Il successo oramai trascorso del Movimento 5 Stelle ha avuto, proprio in questa sua capacità, la principale ragione di successo. In questo senso l’ultima sua proposta, quella di una riduzione drastica della settimana lavorativa a quattro giorni, in quanto “grazie alla tecnologia possiamo liberare il tempo per dedicarci alla vera vita”, riporta alla luce un tema delle rivendicazioni degli anni novanta del secolo scorso, oggi scomparse.



Accanto a quello, un sogno ancora più antico, quello di un lavoro meno oppressivo possibile, dove la libertà di sottoscrivere o meno un accordo lavorativo non fosse inficiata dalla miseria, non si fosse cioè costretti ad accettare qualsiasi nefandezza, mossi dallo stato di necessità. “Non siamo bestie, vogliamo la giornata di dodici ore!” dicevano i tessitori di Lione nel 1831 quando lavoravano quindici ore al giorno per una paga oraria che a malapena permetteva loro di sopravvivere.



Nulla di questo sogno ha perso la propria ragion d’essere. È tuttavia “cambiata la casa” dentro la quale questo vedeva la luce. Il lavoro, dopo essersi spostato nelle grandi aziende e nelle aree sempre più estese del pubblico impiego, è stato dirottato da vent’anni verso l’arcipelago dei contratti a termine e, più in generale, del lavoro precario. Si è così assistito al dilagare quest’ultimo, facendo precipitare almeno due generazioni in una vita appesa agli imprevisti, dove ogni ottimismo risiede più nel capitale accumulato dalle generazioni precedenti che nei nuovi progetti che dovrebbero vedere la luce, almeno oggi, grazie ad una manovra di indebitamento senza precedenti.



Il sogno di lavorare meno si è realizzato, ma in compenso è il lavoro ad essersi reso poco consistente, pronto a dissolversi ad ogni fluttuazione del mercato.

Un tale contesto non ha che due soluzioni: una realistica, fatta di mesta remissione e di riconoscimento di una realtà oggettiva, ed una di proposta, fatta di rilanci e nuovi obiettivi. Se si vuole praticare questa seconda strada, più che mettere il sogno nel cassetto è necessario riscriverlo, rintracciandone le radici. Va allora veramente la pena chiedersi, in modo radicale: veramente la via d’uscita risiede nel “lavorare meno”, o non piuttosto nel lavorare circondati dal rispetto e dalla dignità, cioè nel lavorare accompagnati dal riconoscimento non solo giuridico – ci mancherebbe! – ma anche morale?

Parlo di quel “proletario rispetto” di chi lavora, che è alla base dell’orgoglio operaio, ma anche di quello del professionista che resta negli uffici fino a tardi o dell’impiegato che si vede riconosciuto dalla propria amministrazione per l’efficacia con la quale affronta le proprie pratiche e la puntualità con la quale vi mette ordine. Questi riconoscimenti, questo rispetto, giuridico ed economico, ma anche e soprattutto morale, non valgono infinitamente di più del giorno di lavoro in meno? Non è forse meglio lavorare vedendo i risultati del proprio lavoro, tutelati dalla legge e riconosciuti dal rispetto di tutti, piuttosto che, semplicemente, restare sul divano, diventando potenziale preda dell’industria dei consumi e del tempo libero? Veramente sarebbe quest’ultima la “vera vita” mentre, fuori da questa, non vi sarebbero che pena ed abbattimento, compagni mesti e dimessi di un’esistenza penosa?

È chiaro che se è così, un tale lavoro non andrebbe fatto nemmeno per un’ora la settimana e chi è costretto a svolgerlo è “inchiodato alle proprie catene”. Ma la lotta da intraprendere non è allora quella di farlo lavorare di meno, quanto quella di restituirgli, assieme ad un salario sempre meno indegno di ciò che fa, la dignità e il rispetto che tutti debbono riconoscergli: tanto sul fronte delle istituzioni quanto su quello della società civile, fino al mondo della vita quotidiana ordinaria che deve saperlo apprezzare. Una società che non sa riconoscere e rispettare il lavoro è una società già finita, è già morta, ed ha lasciato lo spazio ad un semplice aggregato di individui da sorvegliare a vista, tanto è alto il suo livello di indifferenza e di potenziale devianza.

Ora è ovvio che il primo soggetto che deve riconoscere la dignità del lavoro è lo Stato stesso, nel suo regime di controllo delle tutele e dei guadagni reali. A lui sta il dovere di perseguire senza sosta il lavoro nero, così come anche quello di rintracciare e perseguire gli accordi truffaldini; quelle vere e proprie “scorciatoie della convenienza” alla fine delle quali ci hanno rimesso tutti ed ha vinto solamente l’astuzia, vera e propria responsabile del tramonto di ogni societas degna di questo nome. Ma lo Stato e il suo controllo non bastano: occorre che si restauri quel valore aggiunto, così prezioso e indispensabile, costituito dal riconoscimento sociale.

Lavorare vedendosi riconosciuti – dalle istituzioni come dalla propria collettività e dalla propria famiglia – è molto più importante del lavorare un giorno in meno. È la qualità della relazione che abbiamo con gli altri a riempirci la vita ed a renderla degna di essere vissuta, tutto il resto è semplicemente inutile, anche il lavorare un giorno di meno.

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