Qualche pensiero volutamente scorretto sul caso Groenlandia & Panama. Non per dar ragione (alcuna) a Donald Trump, ma perché l’opinione pubblica (l’“élite”) occidentale non può pensare di rinchiudersi sempre di più nella deprecazione mediatica, nell’ipocrisia scandalizzata di stampo moralistico ed estetico. Questa è già stata perdente sul fronte ucraino (salvo poi tacere su Gaza, con una sconfitta etica – oltreché geopolitica – forse peggiore). È già stata perdente – per le élites dem – in due elezioni presidenziali americane fra le ultime tre. Ha già gettato nel caos Paesi europei come Francia, Germania e Gran Bretagna: laboratori storici dello “stato di diritto” e dell’“ordine internazionale”.
A un presidente Usa neo-eletto che “non esclude l’uso della forza” per conquistare un’isola artica e riannettersi l’istmo centroamericano è inutile tentare di rispondere con argomenti divenuti via via ideologia politicamente corretta. È invece giocoforza affrontare nel merito storico-geopolitico sia Trump che il terzo dopoguerra mondiale in un secolo (forse il quarto, considerando la caduta del Muro di Berlino come fine della Guerra fredda). E, indubbiamente, appare tutt’altro che facile.
La Groenlandia appartiene allo Stato della Danimarca dal 1814, assegnata a tavolino dagli accordi diplomatici di uno dei tanti dopoguerra, quello dell’era napoleonica. Il pianeta era allora eurocentrico e composto di Stati nazionali – allora per lo più monarchie non costituzionali – alla faticosa ricerca di una coesistenza stabile, anche nei nuovi confini transoceanici. Il legame fra la grande isola oltre l’Atlantico e l’area scandinava dell’Europa affondava certamente nella notte dei tempi. A sbarcare per primi in Groenlandia – abitato allora come oggi da popolazioni native – furono gli stessi vichinghi, che probabilmente si spinsero anche sulla costa atlantica degli odierni Usa ben prima di Cristoforo Colombo, divenuto poi archetipo del “colonizzatore bianco” (anche se i feroci nordeuropei erano forse più “bianchi” di lui).
Sia i vichinghi sia il Regno di Danimarca, in ogni caso, hanno sempre riservato alla Groenlandia un trattamento più elementare ancora di quello colonialistico. Lo scatolone disabitato di ghiaccio a settentrione del continente nordamericano è sempre rimasto un enorme campo incolto, non cintato, pressoché dimenticato dal suo proprietario nominale europeo. È naturale che questo abbia suscitato negli ultimi anni gli entusiasmi degli ambientalisti di ogni latitudine, che anzi utilizzano gli accenni di scongelamento nell’Artico per additare la Groenlandia come esempio: di come e perché il pianeta dovrebbe essere lasciato il più possibile intatto. Ma dentro l’isola ancora largamente congelata vi sono ingenti riserve di terre rare, divenute strategiche nell’era digitale sul piano economico e su quello della sicurezza militare.
Trump aveva già posto la questione nel suo primo mandato, prima della pandemia e soprattutto di una crisi geopolitica sempre più grave ed estesa. Nel frattempo la Groenlandia si sta rivelando sempre più come un gigantesco ponte artico aperto a ogni possibile pressione militare sul Nordamerica da parte della Russia (e della Cina). Di fronte a tutto questo il governo danese, oggi come anni fa e come sempre, non riesce a dire altro che “La Groenlandia non è in vendita”, nel silenzio della Ue e lasciando che i media internazionali inveiscano contro il “gradasso fascista eccetera” che sta entrando alla Casa Bianca. E salvo poi aderire un attimo dopo al mantra occidentale sulla “guerra contro la Russia fino alla vittoria definitiva”.
Il caso di Panama è ancora più visibile. Il canale di Panama – infrastruttura strategica di livello globale come quello di Suez – è stato costruito dagli Stati Uniti fra il 1904 e il 1914. Washington ha controllato direttamente la Zona del canale fino al 1977, facendone una piazzaforte militare già nel corso della seconda guerra mondiale quando la minaccia navale nazista oltre Atlantico era divenuta non più solo teorica. Lo Stato panamense è da sempre una delle piccole entità satelliti centroamericane – sempre dubbie sul piano dello “stato di diritto democratico” – che gli Stati Uniti hanno sempre considerato “cortile di casa”, in un’inerzia storica fatta di affari e sicurezza (soprattutto nei confronti della Cuba castrista filosovietica). Su Panama gli Usa di Reagan sono stati obbligati a un intervento armato per impedire un colpo di Stato nei dintorni del Canale da parte di un dittatore-fantoccio divenuto ribelle contro Washington. Il blitz del 1988 riuscì, a differenza dal fiasco di Kennedy a Cuba nel 1961. Sui libri di storia entrambi sono già quasi dimenticati.
Da ogni punto lo si guardi, il caso Panama resta impalatabile per ogni osservatore interno alla civiltà occidentale: a cominciare dai liberal statunitensi, che Trump detesta quanto loro lui. Però è difficile contestare nel merito al nuovo inquilino della Casa Bianca la preoccupazione per la sicurezza del Canale quando nel subcontinente latino-americano l’infiltrazione cinese e russa avanza a grandi passi. Così come in Africa: dove la mappa degli Stati-nazione formalmente indipendenti disegnata nella fase post-coloniale del secolo scorso è diventata un fake geopolitico. E senza dimenticare che anche la mappa degli Stati-nazione europei disegnata a Yalta nel 1945 è stata completamente ristrutturata già dal 1989 in poi (la guerra russo-ucraina né è un capitolo ennesimo).
Oggi intanto Israele vorrebbe diventare “Grande” annettendo definitivamente gli ultimi territori palestinesi a uno Stato che fino al 1948 non esisteva. Se Trump ha torto a prescindere su Groenlandia e Panama, allora neppure Netanyahu poteva condurre indisturbato 15 mesi di guerra sanguinosa per “difendere la sicurezza di Israele”. Con le armi fornite dagli Usa del democratico Biden.
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