“Un determinato tipo di Stato non piove dal cielo, a generare un regime sono i rapporti ideologici e materiali tra i popoli. È su questo che bisogna riflettere seriamente per poi, altrettanto seriamente, inorridire”. Le considerazioni di Vasilij Grossman ne L’inferno di Treblinka (Adelphi, 2010) sono ancora valide per capire la realtà terribile dell’ideologia. Corrispondente di guerra al seguito dell’Armata Rossa, vittoriosa a Stalingrado, Grossman pubblicò nel 1944 sulla rivista Znamija (Bandiera) il resoconto di decine di testimonianze di prigionieri liberati dall’oppressione nazista. Il suo lavoro accurato nei drammatici dettagli fu dato da leggere dal procuratore sovietico al collegio d’accusa a Norimberga contro i criminali nazisti.
Il testo dello scrittore è un grido a tutta l’umanità perché veda ciò che è successo, perché non dimentichi e non cada nel torpore dell’oblio. Grossman descrive con il suo cuore ferito il risultato dell’ideologia di morte. Essa nasce dalla tortura della menzogna che ha come esecutori dei ladri. Ladri della verità, ladri dei beni dei prigionieri, ladri delle vite altrui. Rubano tutto ciò che possono e inviano ciò che è utile in Germania. Esecutori di un disegno di morte, agiscono come bestie.
Grossman mette in luce una verità tremenda che colpisce in profondità. “L’idea imperialistica dell’eccellenza di una nazione, di una razza o di chissà cos’altro ha avuto come conseguenza logica la costruzione da parte dei nazisti di Majdanek, Sobibor, Belzec, Auschwitz, Treblinka” (L’inferno di Treblinka). Egli vede in presa diretta gli effetti dell’inferno generato dall’ideologia dell’uccidere. Ma non si tratta dello stesso inferno visto da Dante. L’inferno del sommo poeta, amato da Mandel’štam, al confronto con Treblinka sembra “uno scherzo innocente di satana”.
Treblinka, invece, è un mondo a parte, uno spazio gelido, un luogo in cui la bestia è diventata sovrana. Quel posto è popolato da mostri, i cui nomi, pieni di melmoso fango infuocato, sono ricordati con raccapriccio dai sopravvissuti. “Van Eupen, assassino insaziabile e insaziabile depravato”. Stumpfe che uccideva con accessi di riso, Sviderskij che ammazzava a martellate o con altre armi bianche, Preußi che distruggeva le vite di quelli che cercavano di nascosto di mangiare qualche buccia di patate, Schwartz e Loedecke che si divertivano a sparare a caso ai prigionieri che tornavano dal lavoro. Bestie che non avevano più nulla di umano, prede di un mostro policefalo ancora più grande. Senza cuore, senza cervello, senza più anima al servizio di una fabbrica di morte, frutto di un’ideologia nichilista che doveva essere abbattuta per il bene dell’umanità. Nomi marchiati dalla loro viltà, caduti nel precipizio del buio senza fine.
Ma che dire di tutti quei nomi e di tutti quei volti distrutti dal male estremo? E della loro sofferenza? Madri costrette a far vedere ai loro bambini i condannati alla graticola o persone che vedono come ultima cosa l’ossigeno mancare e il loro cuore impazzire? Per Grossman in un’epoca tremenda in cui la bestia trionfa contro gli ebrei e contro l’uomo, resta una differenza fondamentale. “L’uomo ucciso dalla bestia conserva comunque fino all’ultimo suo respiro forza d’animo, mente luce e cuore ardente. Mentre la bestia trionfante che lo uccide resta comunque una bestia”. Per lo scrittore, insomma, c’è una dignità ultima in ogni uomo che neanche la nudità imposta o il terrore suscitato con il ghigno sulle labbra possono cancellare.
E per chi ha visto o letto che cosa può fare una bestia al potere c’è una responsabilità ultima e definitiva: “Dobbiamo tenere a mente che di questa guerra il razzismo, il nazismo non serberanno soltanto l’amarezza della sconfitta, ma anche il ricordo fascinoso di quanto sia facile uno sterminio di massa. E dovrà tenerlo a mente, ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l’onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell’umanità intera”.
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