Ci sono dei libri che parlano ancora oggi, anzi gridano per essere ascoltati. La loro verità non può essere censurata o nascosta nella nebbia del torpore esistenziale. Ucraina senza ebrei (Adelphi, 2023) di Vasilij Grossman è un testo così: squarcia la trascuratezza che evita le scelte morali. La sua storia, perciò, non fu facile. Il potere comunista ne ostacolò attivamente l’uscita. Il lavoro di Grossman, corrispondente di guerra, fu rifiutato da Krasnaja Zvezda (Stella Rossa), il giornale per cui scriveva e fu confinato in forma ridotta in un giornale di minore importanza, Za rodinu (Per la patria) e poi tradotto per un giornale in yiddish.



C’era un convitato di pietra che non doveva assolutamente comparire, neanche sotterraneamente: il patto Molotov-Von Ribbentrop. L’alleanza iniziale tra i due totalitarismi, figli della stessa notte materialistica (Pasternak), non era stata innocente, come dovette tragicamente imparare la Polonia con la sua devastata spartizione e con le fosse di Katyn’. La violenta campagna antisemita di Hitler era stata, poi, accompagnata dal colpevole silenzio del partito comunista. Gli ebrei ucraini, perciò, non avevano conoscenza di quanto stava accadendo nei territori invasi dai nazisti. L’avvento di Caino, assassino degli ebrei, trovò le comunità ebraiche indifese. E alla mercé anche di volenterosi carnefici nella popolazione locale. Stalin vietò anche, successivamente, la denuncia dello sterminio degli ebrei. La censura cadde, perciò, come un colpo di mannaia anche sul testo scritto da Grossman ed Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945 (Mondadori 1999). Una puntuale ricostruzione dell’antisemitismo del dittatore georgiano è stata fatta, peraltro, da Louis Rapoport nel documentato volume La guerra di Stalin contro gli ebrei (Rizzoli 2004).



Ciò che colpisce nel testo curato da Claudia Zonghetti, brillante traduttrice di scrittori e filosofi russi, è la ricorrenza del termine “tremendo”. “Scene tristi e tremende della storia”, “disgrazie tremende”, “silenzio più tremendo”, “misura tremenda”, “epoca feroce e tremenda”.

Grossman, con la sua scrittura tesa e ferita, infatti, ci mette a contatto con una realtà innaturale e terribile che toglie la parola. “Li hanno uccisi tutti, centinaia di migliaia, milioni di ebrei ucraini… Qui hanno ucciso un popolo, hanno ucciso le case, le famiglie, i libri e una fede; hanno ucciso l’albero della vita: sono morte le radici, ma non i rami e le foglie”.



Lo sguardo dello scrittore di Berdičev è colpito da una disumanità senza pari, mai vista prima. La violenza della bestia diventata sovrana, che si abbatte contro gli innocenti, fa ammutolire. Il cuore dell’autore sente il grido soffocato degli inermi e il loro ultimo tremito. Ci trasmette il palpito dei semplici e degli umili messo a tacere. Grossman è colpito da un fatto storico incredibile e mostruoso. Erode, Nerone, Caligola, i khan tatari, i mongoli o Ivan il Terribile nella loro ferocia non erano arrivati a un crimine così estremo, radicale e abnorme.

Che cos’è successo, allora, nell’animo di chi ha distrutto tanti innocenti? Per lo scrittore una forza amorale e irrazionale ha preso possesso della Germania nazionalsocialista. “È nata dall’eccezionalismo della razza germanica, dalla profonda convinzione dei tedeschi di oggi di essere il popolo eletto e che la loro felicità, la loro pace e sicurezza siano le uniche cose sacre nella storia”. Un “cervello da cinghiale selvatico”, che non conosce le leggi dell’umanità e della vita, guida le azioni dei nazisti, moralmente ciechi. Il piffero magico dell’ideologia fa annegare gli uomini, trattandoli come ratti. Ciò che colpisce nei prigionieri tedeschi è loro la mancanza di vergogna riguardo agli orrendi crimini commessi: il cuore diventato sasso inerte e insensibile.

Di fronte all’umanità finita nel gelo dello spirito, precipitata nel burrone delle tenebre, perciò, bisogna vincere ad ogni costo, incenerendo le forze del razzismo, cioè “l’idea che una sola nazione abbia l’egemonia sui popoli della terra, l’idea che un solo popolo e un solo stato opprima tutti gli altri popoli e tutti gli altri stati”. Si tratta pertanto di sconfiggere l’ideologia della morte non solo spiritualmente, ma anche nelle sue distruttive convinzioni. Dopo un eccidio così spaventoso non si può più vivere come prima. Si deve tracciare una linea tra il prima e il poi.

Tanto differente è invece la strada di Grossman alla ricerca della madre, Ekaterina Savel’evna, e della verità. Il suo percorso drammatico non rinuncia a vedere la realtà come si presenta e arriva a una conoscenza cruda e dolorosa: il nome di sua madre non figura tra gli sfollati della città di Berdičev. La morte di chi dà la vita, di chi fa nascere, uccisa per puro odio, non finisce, però, nel nulla di una storia senza senso. Mette in atto un giudizio ultimo sulla vita.

Emergono così dal testo due posizioni totalmente diverse che vanno verso l’infinito. Grossman, lo scrittore che vuole trovare sua madre, e i nazisti che hanno ammazzato le madri. I soggetti di quella storia e della nostra storia sono attraversati da una domanda originaria e antica che percuote la coscienza: “Caino, dov’è tuo fratello Abele?”.

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