Nel racconto biblico della torre di Babele, il tentativo umano di sfidare Dio fu punito con la confusione delle lingue, l’incapacità di immediatamente capirsi come invece accadeva quando la lingua era unica. La sfida a Dio si è risolta in una profonda divisione tra gli uomini, che ha affiancato e aggravato le altre drammatiche divisioni che continuano a segnare la storia umana.
L’odierna comunicazione di massa, centrata su televisione e social, ha accentuato il problema, da un lato con un linguaggio sempre meno ricco, dall’altro rendendo più “contundente” ogni confronto. Ciò è particolarmente significativo in politica, dove ci si limita troppo spesso ad etichettare chi si considera avversario, rinunciando ad approfondire le rispettive posizioni. Non si tratta certo di una novità, ma i mezzi di comunicazione attuali hanno portato la strumentalizzazione della parola a livello, appunto, di massa.
Un esempio è l’accusa di nazionalismo, alla quale si può applicare il detto giolittiano “le leggi si applicano ai nemici, per gli amici si interpretano”, come dimostrano le guerre in corso in Ucraina e a Gaza. Qui, a seguito della feroce azione di Hamas e della conseguente violenta reazione israeliana, la radicalizzazione delle definizioni e la conseguente strumentalizzazione appaiono particolarmente evidenti.
Sui media, nei dibattiti televisivi e nelle piazze si scontrano due termini, entrambi usati in modo apodittico: antisemita e, in opposizione, filo-palestinese. Due definizioni che non ammettono sfumature (o si è da una parte o dall’altra) e diventano epiteti lanciati contro chi ha una diversa posizione, o che solo cerca di approfondire la questione. Invece, proprio una vicenda estremamente complessa come quella del rapporto tra Palestina e Israele avrebbe bisogno di una riflessione approfondita.
Il termine “antisemita” è di per sé ambiguo, perché anche gli arabi sono semiti, ma storicamente è riferito solo agli ebrei ed evoca l’immane tragedia dell’Olocausto. In molte nazioni non è purtroppo sparita l’avversione agli ebrei, ma sotto l’aspetto etnico vi sono attualmente altre etnie molto più oppresse; sotto l’aspetto religioso, la persecuzione contro i cristiani in diverse parti del mondo è decisamente più pesante. Da un altro lato, non è da tralasciare l’indubitabile forza della finanza cosiddetta ebraica, vedasi quanto recentemente successo in diverse università americane e l’importanza che essa ha nelle prossime elezioni presidenziali.
La vicenda di Gaza in realtà riguarda in primo luogo lo Stato di Israele, anzi l’attuale suo governo, e quindi le prese di posizione contrarie dovrebbero essere semmai identificate come antisraeliane, e non immediatamente antisemite. Personalmente sono convinto che questa automatica e totale coincidenza tra antisemita e antisraeliano sia del tutto negativa per gli ebrei come popolo. Come l’avversione al regime di Putin non può coincidere con una condanna di tutto il popolo russo, così non può essere tradotta immediatamente in antisemitismo la critica ai comportamenti del governo israeliano. Analoghe differenziazioni andrebbero fatte anche per la definizione di filo-palestinese, per evitare la irragionevole identificazione del popolo palestinese con Hamas.
Le responsabilità nella mancata realizzazione della soluzione “due popoli, due Stati” è sia degli arabi che di Israele, anche se negli ultimi tempi è da parte di quest’ultimo che sono venuti i maggiori ostacoli. L’attuale Israele si è molto distanziato dallo Stato laico dell’origine, diventando sempre più confessionale e tendendo ad eliminare la distinzione tra ebreo e israeliano, anche se in Israele il 20% della popolazione è araba. In diverse manifestazioni cosiddette pro-Palestina si è sentito urlare lo slogan di Hamas “dal fiume al mare la Palestina sarà libera”, che sottintende la sparizione dello Stato di Israele. Ma allo slogan “dal fiume al mare”, con Gaza parte di Israele, si sono riferiti anche membri del governo israeliano, con l’ipotesi di trasferire in qualche Stato africano l’intera popolazione di Gaza. Non credo che condannare questa posizione significhi automaticamente antisemitismo, né tanto meno essere dalla parte di Hamas.
Le accuse a Israele di genocidio mi sembrano difficilmente sostenibili e anche qui si potrebbe rivelare un utilizzo strumentale dei termini, un riprovevole tentativo, forse, di “rinfacciare” agli ebrei il genocidio da loro subìto. Tuttavia, i programmi citati su Gaza, se non fermati, potrebbero configurarsi come pulizia etnica. Operazioni che si stanno svolgendo in diverse altre parti del mondo senza molto rilievo, peraltro, come per gli armeni del Nagorno Karabakh.
Siamo ora entrati nel tempo liturgico di Pasqua, che terminerà con la Pentecoste. Qui la discesa dello Spirito Santo ha riparato il danno di Babele, non ripristinando una sola lingua, ma consentendo agli apostoli di essere capiti anche da chi parlava una lingua diversa dalla loro. Senza traduttori, se non lo Spirito: un augurio e una speranza anche per tutti noi.
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