Non solo è finita la tregua, ma si è anche smesso di trattare. Segno che la speranza di una soluzione pacifica o di abbassare il livello dello scontro armato ormai è davvero ridotta al lumicino. Da qualunque parte la si guardi, la situazione in questo momento sembra senza sbocchi, pure sul fronte della collocazione degli sfollati, che le operazioni militari dell’IDF nel Sud della Striscia di Gaza, con l’obiettivo immediato della conquista di Khan Yunis, rischiano di spingere inesorabilmente oltre il confine con l’Egitto, nel Sinai.



Le chiavi per la soluzione del problema, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione nell’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi, le hanno in mano gli Usa, che però non riescono a farsi ascoltare da Netanyahu, il quale continua irremovibile nella linea dura rispondendo a quelli che di fatto sono gli azionisti di maggioranza del suo esecutivo, cioè i partiti di estrema destra.



La mossa di Biden, pressato anche dai leader musulmani americani che minacciano di non votarlo alle prossime presidenziali, potrebbe essere quella di far uscire dal governo israeliano il generale Gantz e dichiarare quindi una crisi politica che sfocerebbe in nuove elezioni. Un’opzione non così semplice in un contesto come questo. Gli Stati Uniti, però, dovranno fare qualcosa, non potranno lasciare che il governo israeliano continui sulla sua strada, incentivando ad esempio altri insediamenti in Cisgiordania, senza tenere conto della posizione di quello che è l’alleato principale di Tel Aviv.



Israele ritira la sua delegazione da Doha e intima ad Hamas di lasciare le armi pena la morte. L’organizzazione palestinese annuncia che non riprenderà il dialogo fino a che non finiranno le operazioni militari e non verranno consegnati i prigionieri ora nelle carceri israeliane. Ormai siamo allo scontro totale?

Sicuramente gli Usa oppure il Qatar sull’altro versante cercheranno un’ulteriore mediazione, ma è la congiunzione delle forze che porta alla ripresa della guerra. Israele non ha mai voluto la tregua, l’ha subita: ha impostato una strategia di annientamento di Hamas e vuole perseguirla fino in fondo. Spesso ci si dimentica che le forze che sostengono il governo Netanyahu, in particolare i partiti nazionali-religiosi e il potere ebraico, sono assolutamente favorevoli alla guerra, allo scontro a Gaza, anche per evitare che venga rimessa sul piatto la proposta americana di costituire uno Stato palestinese. Si tratta degli azionisti di maggioranza di Netanyahu, di cui ha bisogno in parlamento. Gli Usa potrebbero andare a una rottura totale con il premier puntando su Benny Gantz, concordando una fuoriuscita anticipata di quest’ultimo dall’esecutivo, anche se potrebbe comportare elezioni anticipate subito, difficili da gestire in una situazione di guerra aperta. I fattori di politica interna contano tantissimo in questo momento.

Sul fronte palestinese, invece, come si sta muovendo Hamas?

Hamas non ha grandi prospettive, sa che forse potrà essere salvaguardata la manovalanza dell’organizzazione, ma la leadership è condannata a una replica dell’operazione Monaco. L’obiettivo di Israele è prenderli uno per uno ed eliminarli. Quando due leadership sono senza via di uscita, una politicamente, l’altra esistenzialmente, diventa complicato un tentativo di mediazione. Nella logica di Hamas poi è contemplata l’ipotesi del martirio, di cadere in combattimento. L’unica sua strategia perseguibile è quella di continuare a mantenere gli ostaggi, ora prevalentemente soldati, per tenere lontane le operazioni militari: se esaurisce il bacino degli ostaggi dall’altra parte viene meno qualsiasi remora all’attacco totale. Una situazione di stallo che conduce verso lo scontro.

Gli unici, quindi, che possono rompere questo schema sono gli Stati Uniti. Mentre Blinken, però, continua a dire che sta lavorando per riprendere le trattative, gli israeliani vanno per la loro strada senza ascoltarlo. E Biden deve fare i conti con il pronunciamento dei leader musulmani di sei stati Usa contrari alla sua candidatura perché non ferma le operazioni militari di Israele. Cosa possono fare di concreto gli americani?

Il pronunciamento dei leader musulmani negli Usa è un grandissimo problema per Biden: può darsi che quella pressione funzioni, perché l’elettorato musulmano può essere decisivo nei cosiddetti swing states. Dall’altro lato l’elettorato ebraico, prevalentemente legato ai democratici, non solo si conta, ma pesa. Il presidente americano deve muoversi entro questi due poli e non è semplicissimo nemmeno per lui: è una scelta che può costargli la presidenza.

Come ha sottolineato anche il presidente francese Macron non si capisce bene, tuttavia, quale sia la strategia di Israele, che cosa voglia fare di Gaza e della Palestina nel dopoguerra. Netanyahu ha dichiarato a più riprese che non si può dare all’ANP la gestione di Gaza. C’è qualche elemento che possa fare almeno intuire la posizione israeliana?

È chiaro che si sta prendendo tempo in attesa di vedere quali saranno gli sviluppi: la soluzione che Netanyahu e la destra estrema propongono è quella di Gaza senza Hamas ma anche di una Palestina senza Stato. Una posizione che, dopo il pronunciamento in questo senso degli Stati Uniti, diventa impossibile da difendere: uno dei due ci rimette la faccia, o Biden o Netanyahu. È un meccanismo che si è avvitato su se stesso. Anche se Israele istituisse una fascia di sicurezza, questo significherebbe ridurre il potenziale territorio da assegnare ai palestinesi: un altro fattore di complicazione. Tel Aviv aveva interesse a mantenere lo status quo di prima della guerra, mentre Hamas ha sparigliato la situazione. E lo stesso ha fatto per quanto riguarda gli Accordi di Abramo. Ora è evidente anche ai Paesi arabi che hanno legami con gli Usa che lo status quo ante 7 ottobre non è più riproponibile. Può anche esserci Hamas fuori da Gaza, ma non l’assenza totale di un’ipotesi politica.

Secondo l’Onu il 75% della popolazione di Gaza è sfollata internamente. Adesso che Israele punta al Sud della Striscia e in particolare a Kahn Yunis, tuttavia, il tempo per trovare una collocazione ai profughi è sempre meno: cosa si aspetta ad agire?

Bisognerà capire anche la reazione di Al Sisi, perché l’Egitto ha chiarito fino in fondo che non vuole farsi carico della situazione. Potrebbero prendere l’iniziativa le Nazioni Unite che comunque sono sostanzialmente le grandi potenze: basta esercitare il diritto di veto e tutto finisce lì. In questo contesto lo sfollamento di un milione di persone in Egitto sarebbe una soluzione provvisoria che rischierebbe di diventare quasi sicuramente definitiva. E la logica di Israele della mappina di quartiere per cui si fanno evacuare le persone nel rione vicino non può funzionare quando i combattimenti diventano intensi: è solo un modo per rispondere alle pressioni degli americani, che si sono raccomandanti di diminuire gli effetti sui civili, ma non è una risposta all’altezza. Sarebbe come dire che a Milano si combatte a San Babila e non in Duomo.

Una situazione che preoccupa anche in termini di escalation: lo stesso Iran ha fatto sapere che se Israele continuerà così, l’allargamento del conflitto sarà inevitabile. Quanto è consistente questo pericolo?

Iran ed Hezbollah, pur appoggiando Hamas, non hanno interesse che il conflitto si allarghi, ma sappiamo che ci sono guerre che una volta innescate non si riescono poi a controllare sul campo. Gli Usa devono prendere l’iniziativa, il problema è che hanno le armi spuntate. Oltretutto il fatto che Netanyahu sia alla fine del suo percorso politico paradossalmente lo mette in una sorta di botte di ferro: bisogna vedere se Biden e la sua amministrazione hanno voglia di puntare su Gantz, a una crisi interna che conduca a una nuova maggioranza. Ma devono avere il consenso del Likud (il partito di Netanyahu, nda): non possono certo appoggiarsi all’opposizione laburista.

Il governo attuale, d’altra parte, fa il contrario di quello che dice Biden: hanno appena approvato altri incentivi per i coloni in Cisgiordania.

Questo è il punto: è una crisi imperiale degli Usa, non riescono a farsi ascoltare da uno Stato cui forniscono sostegno logistico, di intelligence e finanziario. Se non vogliono che la catastrofe si allarghi dovranno puntare i piedi. Si gioca molto sul tempo: Netanyahu vuole che si vada velocemente verso la liquidazione di Hamas. Sa che più va avanti più il tempo gli gioca contro, per questo gli conviene aumentare l’intensità delle operazioni militari.

(Paolo Rossetti)

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