Tutti gli occhi puntati su Gaza, con l’IDF che avanza in città e mette sotto pressione la zona degli ospedali. E anche sugli ostaggi, con l’ipotesi di scambiare addirittura 100 di loro con prigionieri palestinesi prima confermata e poi smentita. Ma c’è un altro fronte del conflitto che va tenuto sott’occhio, perché proprio lì si sta giocando una partita importantissima in vista di una possibile soluzione della questione palestinese: la Cisgiordania.
Dal 7 ottobre in poi i morti sono stati 176, molti di più di quelli che si sono verificati nel resto dell’anno in una zona segnata da una tensione continua. I coloni, cui il Governo recentemente ha consegnato anche delle armi, continuano ad occupare i territori dei palestinesi, con l’esercito che li spalleggia: una spina nel fianco, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato del Tg 1 Esteri, per ogni ipotesi di soluzione del conflitto. Tanto più che ora anche dal più grande partito di opposizione, quello di Lapid, Yesh Atid, arrivano parole di sostegno proprio per le loro rivendicazioni.
Anche il bollettino di guerra della Cisgiordania è preoccupante: dal 7 ottobre 176 morti, 2mila feriti, 1.500 arresti. Si parla quasi solo di Gaza ma anche qui il conflitto lascia il segno e a pagare il prezzo della situazione sono i palestinesi, oggetto degli attacchi dei coloni, con azioni che alla fine svuotano i loro insediamenti. Cosa succede in West Bank?
Dal 7 ottobre a oggi c’è un aggravamento esponenziale della situazione, che nell’ultimo anno era cambiata ulteriormente in peggio. Ci sono oltre 500mila coloni israeliani ed ebrei in Cisgiordania ai quali si aggiungono 250mila coloni di Gerusalemme Est, la parte araba della città. Queste persone puntano a impedire il sostentamento economico di una parte importante della popolazione palestinese boicottando la raccolta delle olive, che si svolge in questo periodo. I coloni agiscono con la presenza dell’esercito, che li protegge da eventuali reazioni. In molti casi ci si appropria delle olive e dei campi palestinesi per far venire meno una fonte importante di sostentamento. Dall’altra parte c’è il tentativo, che in alcuni villaggi a sud di Nablus e a sud di Hebron si è già realizzato, di allontanare i residenti prendendoli di mira con minacce verbali ma anche devastando negozi e auto posteggiate nelle strade dei villaggi. Parliamo già di 500 palestinesi che hanno deciso di abbandonare le loro case.
L’esercito spesso è protagonista anche di altri interventi di controllo del territorio, con arresti continui. Qual è l’obiettivo?
Il ruolo dell’esercito va oltre: da settimane tenta di penetrare in alcune grandi città palestinesi, in particolare Jenin e Nablus, ma non solo, anche nella periferia di Ramallah e a Hebron. Lì da quasi due anni si sono formati dei nuclei di resistenti che non hanno nulla a che vedere con Hamas, ma che esprimono ostilità anche nei confronti dell’Autorità nazionale palestinese, che a loro avviso non difende gli abitanti ma collabora con l’esercito israeliano nella individuazione dei combattenti e nel loro arresto. Il numero dei morti a Jenin aumenta di decine al giorno. Anche il numero dei palestinesi nelle carceri israeliane supera i 9mila, nella stragrande maggioranza sono detenzioni amministrative, senza che le persone, cioè, siano state portate davanti a un giudice.
Di fatto mentre il mondo si preoccupa soprattutto di Gaza gli israeliani stanno occupando altri territori?
Sì. È anche un’iniziativa per stabilire il controllo del governo israeliano su tutta la Cisgiordania favorendo la migrazione della popolazione verso la Giordania, la quale, infatti, è molto preoccupata. Quindi è un’iniziativa politica, che ha avuto due capisaldi: Netanyahu alla formazione del suo governo ha affidato al leader di uno dei partiti sionisti religiosi, Smotrich, non solo il ruolo di ministro delle Finanze, ma anche di viceministro della Difesa, con la delega a governatore civile della Cisgiordania. Colui che ritiene che non debba esserci nessuno Stato palestinese è di fatto la persona che controlla tutti gli aspetti vitali, economici, amministrativi della vita nella Cisgiordania oggi. Ma c’è un altro elemento importante per capire la situazione.
Quale?
È più recente: l’inaspettata dichiarazione di Yair Lapid, il leader della più grande partito di opposizione, che non è entrato nel governo di unità nazionale. In un’intervista ha detto che le colonie non sono illegali ma sorgono sul territorio biblico di Israele. Un’affermazione che, detta da un laico, fa capire che c’è un tentativo politico di sostituire Netanyahu mantenendo però il rapporto con la destra israeliana che, evidentemente, anche a detta di Lapid, è determinante per il futuro dei governi. Questi elementi fanno capire come sia debolissima la proposta internazionale di riesumare gli accordi di Oslo, con un’ipotesi di Stato palestinese in Cisgiordania comprendente anche Gerusalemme Est.
Quello di Lapid è un cambiamento di rotta improvviso?
No, è la presa d’atto di quel cambiamento nella cultura politica israeliana evidente da dieci anni, ma che con le elezioni dello scorso anno e i fatti del 7 ottobre è diventata manifesta. L’opinione pubblica israeliana, che ha contestato Netanyahu, nello stesso tempo è spaccata a metà e la componente di destra che fa riferimento al sionismo religioso sta monopolizzando la realtà di centro. Lapid ne ha tratto le conseguenze politiche.
Questo vuol dire, nella sostanza, che non c’è nessuna prospettiva di pace?
Non c’è nessuna prospettiva di pace nei termini in cui la comunità internazionale, Stati Uniti e Unione europea in particolare, la sta sbandierando, pensando che il conflitto israelo-palestinese si risolva eliminando Hamas. Il problema adesso, e già da alcuni anni, era di costituire o meno uno Stato palestinese. Quella che era una verità di fatto è diventata una verità verbale, politica, maggioritaria: la Cisgiordania e Gerusalemme Est e tantomeno Gaza non possono essere parte di uno Stato palestinese. Un problema serissimo perché ormai è politico, culturale e militare.
Secondo il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian, la violenza degli attacchi a Gaza è tale che ormai l’allargamento del conflitto è inevitabile. Fa la voce grossa per mettere in guardia Usa e Israele oppure segnala un pericolo sempre più concreto?
I segnali sono di un pericoloso avanzare verso un allargamento del conflitto, perché sul piano politico non c’è stato nessun cambiamento. La richiesta di un cessate il fuoco che veniva dalla totalità del mondo arabo è stata respinta, non solo da Israele ma anche dagli Stati Uniti. La cosiddetta pausa umanitaria di quattro ore al giorno serve solamente a svuotare della popolazione l’intera parte Nord di Gaza: non ha la valenza di offrire al mondo arabo la possibilità di lavorare per una soluzione diversa da quella brutale del confronto militare. Prevale la logica dell’annientamento. E questo in una situazione in cui la metà del mondo vede una quantità di immagini che non si vedono in Europa e in parte negli Usa.
In Occidente c’è anche un problema legato all’informazione?
Alcune centinaia di giornalisti americani hanno sottoscritto un documento in cui si invitano i direttori dei media, quindi giornali e televisioni Usa, a essere più veritieri, a ospitare anche le immagini delle atrocità, dei bombardamenti israeliani, e nel contempo ad allontanarsi da quella retorica disumanizzante che sembra essere per una pulizia etnica che è già in corso nella parte Nord di Gaza. Un elemento che aggrava il rischio di un allargamento del conflitto.
(Paolo Rossetti)
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