Trentasettesimo giorno di guerra, circa 12mila vittime palestinesi, duemila israeliane, un numero imprecisato di sfollati che hanno già attraversato il varco di Rafah e sono stati accolti (provvisoriamente) in Egitto, un altrettanto imprecisato numero che dall’altro giorno sfrutta le pause di quattro ore dai combattimenti (pause che però vengono annunciate solo tre ore prima, e valgono solo per certi quartieri) per abbandonare ogni cosa e incamminarsi verso sud. Incamminarsi nel senso letterale della parola, visto che i mezzi sono rari e anche quei pochi sono fermi per la mancanza di carburante.
Oggi la striscia di Gaza appare una distesa di rovine. Quello che ancora non emerge del tutto è invece il reticolo di tunnel che è stato scavato non solo sotto il confine tra Gaza e Israele, ma anche e forse soprattutto sotto la sabbia della Striscia, a nascondere i terroristi e l’intellighenzia di Hamas, capitanata da quel Yahya Sinwar che ne comanda le operazioni e da Ismail Haniyeh, il leader. Il loro quartier generale sarebbe proprio sotto Al-Shifa, l’ospedale più importante di Gaza, nella zona occidentale di Gaza City, ma anche tutti gli altri ospedali sarebbero il paravento di superficie per i rifugi sotterranei dei terroristi, che per di più userebbero le ambulanze per i loro spostamenti. Una prova in più della considerazione che Hamas ha del popolo palestinese, utile solo come scudo umano e come pretesto demagogico per influenzare le tensioni, visto che l’unico obiettivo del movimento resta sempre l’annientamento dello Stato ebraico.
Sul campo
Le IDF, le forze di difesa israeliane, continuano ad avanzare “lentamente e meticolosamente” nel nord della Striscia – secondo un report di ISPI, l’Istituto per gli studi di politica internazionale. I blindati israeliani hanno circondato anche gli ospedali l’Al-Rantisi e l’ospedale pediatrico Nasser. Non è prevedibile, ad oggi, la durata delle operazioni israeliane a Gaza City: oltre alle sortite imprevedibili dai tunnel, i terroristi schierano cecchini su ogni palazzo e ogni rovina sopraelevata, trappole esplosive nascoste nei siti più improbabili, e continuano (anche se più sporadicamente) a lanciare missili a corto-medio raggio. Anche ieri gli allarmi sono scattati a Tel Aviv. La guerra asimmetrica è una guerra di controllo del territorio dove le posizioni diventano incerte, fluide, dove un blitz improvviso può valere più di un’avanzata massiccia delle forze.
Intanto, dopo il trasferimento della USS Eisenhower nel Mar Rosso (diretta verso il Golfo Persico), la USS Gerald Ford circuita nel Mediterraneo orientale (ad ovest di Cipro) con il suo Carrier Strike Group. Il dispositivo statunitense nell’area vede adesso schierata anche dalla USS Mesa Verde, un bacino di trasporto anfibio di classe San Antonio, posizionata al largo delle coste dell’Egitto. Una flotta deterrente che tenta di esulare dal perimetro d’azione del temuto P-800 Onikis, detto Yakhont, un missile supersonico anti-nave con gittata di 300 chilometri, che viaggia a 3mila chilometri orari. L’ordigno è di fabbricazione russa, ed è finito nelle mani degli Hezbollah libanesi (sorta di vero esercito non statale, proxy dell’Iran) dopo un passaggio in Siria, paese al quale la Russia li ha venduti.
Gli scenari
L’andamento del conflitto è un divenire continuo, dove ognuno dei player in qualsiasi momento può modificare la sua postura, generando reazioni imprevedibili. Se la minaccia degli Hezbollah si dice possa rimanere tale – per la prudenza nell’allargamento delle operazioni, che finirebbe col coinvolgere direttamente lo Stato sciita, più propenso a continuare a muovere da remoto i suoi affiliati, scongiurando una guerra in suolo iraniano – si può essere invece più che certi che lo stillicidio di attacchi puntuali dal sud del Libano, ma anche dai terroristi Houthi dello Yemen, o dagli islamisti più fanatici nella West Bank, continuerà e non solo durante la guerra a Gaza, ma anche dopo.
Anzi: è prevedibile che le fila dei combattenti s’ingrosseranno con l’arrivo di nuovi aspiranti terroristi o martiri, i palestinesi oggi in fuga, che hanno perso tutto e ai quali nessuno è in grado di prospettare un futuro. Un vicino Oriente che resta polveriera, insomma, con il non-Stato palestinese come miccia, senza un disegno concreto che ripari le colpevoli disattenzioni del passato e il disimpegno assunto di volta in volta dagli inglesi (che nel ’48 cedettero il loro mandato), dall’Onu (il compromesso pilatesco di spartizione varato nel ’47), dagli Usa (che soprattutto con l’amministrazione Trump vollero rivedere la loro presenza in tutta l’area), per finire con lo stesso Netanyahu, che pensava di indebolire la presenza palestinese mescolandola e manipolandola a Gaza e riducendola in minuscole enclave in Cisgiordania, lasciando mano libera all’espansione dei coloni.
La politica e la diplomazia
Le quattro ore al giorno di sospensione dei combattimenti sembrano una limitata risposta alle diffuse richieste di cessare il fuoco, arrivate anche dalla Casa Bianca, ma somigliano allo stesso tempo a pause tattiche utili alle IDF per riorganizzare gli schieramenti quadrante dopo quadrante e a vagliare con attenzione l’esodo dei civili, tra i quali non si può escludere si mimetizzino attivisti islamici.
La trattativa su una sospensione più lunga, che avrebbe potuto portare al rilascio di alcuni ostaggi, è stata respinta da Netanyahu, per niente intenzionato a concedere ad Hamas il tempo per riorganizzarsi. Shadi Hamid, sul Washington Post, ha scritto che “la questione ostaggi è tutt’altro che secondaria nel percorso verso un cessate il fuoco vero e proprio. Ma qualsiasi proposta di cessate il fuoco deve prendere sul serio le legittime esigenze di sicurezza di Israele. Hamas deve accettare di rilasciare gli ostaggi e impegnarsi a fermare il lancio di razzi. In cambio Israele accetterebbe di fermare il bombardamento a Gaza”.
Le trattative, intanto, non si fermano: giovedì scorso, a Doha, si è tenuto un vertice tra Bill Burns, direttore CIA, David Barnea, capo del Mossad, e funzionari del Qatar per mediare sul rilascio degli ostaggi. Un vertice che però non ha sortito gli effetti sperati, sui quali puntava molto l’amministrazione Biden, spinta anche dai suoi diplomatici nei Paesi mediorientali, che predicono i pesanti effetti negativi di una long-war.
Si resta dunque bloccati in un cortocircuito: si vuole il cessate il fuoco e gli ostaggi liberi, ma anche la sicurezza degli israeliani, la sconfitta del terrorismo islamista di Hamas, la salvaguardia della popolazione palestinese e possibilmente la pacificazione di tutta l’area. Ma è disarmante vedere che uno qualsiasi di questi punti non può prescindere dagli altri.
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