Un piano in tre fasi targato Egitto, ma appoggiato da USA e Qatar, per arrivare alla pace e affidare il dopoguerra di Gaza a un governo tecnico. La proposta di Al Sisi, che prevede la liberazione in tre tappe degli ostaggi rapiti il 7 ottobre e dei prigionieri palestinesi che sono nelle carceri israeliane, ha ricevuto un no da Hamas, che vorrebbe, invece, una cessazione completa delle operazioni militari dell’IDF e la scarcerazione di tutti i palestinesi ancora detenuti. Il piano sarebbe comunque ancora oggetto di discussione con Hamas mentre non c’è una presa di posizione da parte del governo Netanyahu.
Quello che è certo, per ora, è solo che si continua a sparare, che i morti hanno superato quota 21mila, che la catastrofe umanitaria della Striscia è sempre una realtà e che, come spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia, collaboratore di Avvenire, la guerra sta causando oltre 100 milioni di euro di danni al giorno alle economie di Libano, Egitto e Giordania: se dovesse continuare per altri tre mesi la perdita sarebbe di 18 miliardi totali. Un colpo non da poco per nazioni che erano già in difficoltà e che con la guerra vedono svanire, oltre che le entrate commerciali, quelle per il turismo, uno dei settori che incide di più sul loro Pil.
L’Egitto ha presentato il suo piano di pace: quali possibilità ha di essere preso effettivamente in considerazione?
Il piano non è stato accettato da Hamas e dalla Jihad. O meglio, la mediazione va avanti, ma Hamas vorrebbe la liberazione di tutti gli ostaggi e contemporaneamente di tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane senza che vengano previste tre fasi. Staremo a vedere. È un piccolo barlume di speranza dopo tre mesi di continui bombardamenti.
Che cosa prevede il piano?
La prima fase riguarda tutti gli ostaggi civili, donne, bambini, anziani, ammalati, che andrebbero liberati in cambio di un certo numero di detenuti palestinesi. La seconda fase riguarda le soldatesse israeliane e la restituzione delle salme. L’ultima, invece, è relativa ai militari maschi. Dobbiamo tenere conto del fatto che il numero di detenuti palestinesi sta continuando ad aumentare: prima del 7 ottobre si parlava di 7mila, adesso di 12mila persone. Questo è un punto centrale.
Quale potrebbe essere la contropartita per liberare gli ostaggi?
Non so se l’ANP sarà contenta di essere sorpassata da Hamas che chiede la liberazione di tutti i reclusi, anche di quelli che non sono di Hamas. Su questo, comunque, le trattative sono aperte: secondo l’Egitto bisogna concordare l’elenco dei detenuti da liberare. Non parla, quindi, di tutti i prigionieri. Ci sono reclusi e reclusi: molti sono in detenzione amministrativa, prevista sulla carta per 30 giorni senza che ci sia un processo. L’ultimo caso è di un’avvocatessa, Khalida Jarrar, che ha sempre difeso i diritti delle detenute. Il numero di queste persone aumenta. Ci sono video che mostrano gli ultimi arrestati a Khan Yunis e Gaza, con persone denudate e bendate.
I tempi di attuazione, invece, quali sono?
L’Egitto ha indicato dei tempi per chiudere le trattative: 7-10 giorni per la prima fase, una settimana per la seconda e un mese per la terza. Nel frattempo è prevista la cessazione delle ostilità, la fine dei sorvoli da parte di aerei israeliani, il ritiro dei carri armanti e soprattutto l’entrata degli aiuti umanitari. Qui siamo di fronte a una catastrofe: ora si dà una bottiglia di acqua al giorno per otto persone.
Israele come ha accolto il piano di Al Sisi?
Ci sono divergenze interne al governo israeliano, ma più che sul piano egiziano sono sul dopoguerra. Netanyahu spinge per continuare l’operazione di terra, altri, come Gallant e Gantz, sono per rallentare.
Gli egiziani, tra l’altro, propongono un governo tecnico per la gestione di Gaza una volta concluso il conflitto. Su questo punto quali reazioni ci sono state?
È l’unico punto su cui si è pronunciata l’ANP, contestandolo, come se gli altri punti non la riguardassero. Hanno detto no a un governo tecnico. L’idea di un governo apartitico mi sembra quella più proponibile. L’ideale, tempo permettendo, sarebbe anche creare una nuova leadership palestinese con elementi come Marwan Barghouti che sono in carcere ma non si sono macchiati di corruzione. Molti non sono legati ad Hamas e neanche ad Al Fatah, da cui alcuni sono usciti.
Ma l’ANP in questo momento come si sta muovendo?
Non capisco più Mahmoud Abbas: il 24 dicembre sono entrati i carri armati israeliani a Ramallah, praticamente sotto casa sua. Hanno arrestato e sparato e lui non ha detto niente, screditando nuovamente un’Autorità che ormai è con la “a” minuscola. Al di là delle distruzione e delle vittime, l’ANP da ottobre non paga più gli stipendi ai suoi funzionari e ai pensionati. Ora probabilmente interverrà la UE con un pacchetto di 118 milioni di euro.
La proposta egiziana, che sembra sia vista di buon occhio anche dalla Giordania, che fine farà?
Il re giordano ne ha discusso con Al Sisi, parlando anche del pericolo di uno sfollamento forzato di palestinesi che corrono sia Egitto che Giordania. I giordani però non sono direttamente coinvolti nel piano. Il trio che gli sta dietro è quello che comprende, oltre all’Egitto, anche Qatar e USA. Staremo a vedere cosa succederà. L’annunciato arrivo di Ismail Haniyeh, uno dei capi di Hamas, al Cairo aveva fatto supporre che un accordo potesse essere vicino. Non è stato così. Intanto siamo a oltre 21mila morti e 55mila feriti, con 105 giornalisti morti.
Preoccupano, intanto, anche i segnali di un eventuale allargamento del conflitto. Hezbollah, per bocca del numero due Naim Qassem, ha messo nel mirino l’Italia mettendola nella schiera dei Paesi che rappresentano la coalizione del male, insieme a USA, Gran Bretagna, Francia e Germania e naturalmente Israele. Come mai?
È la prima volta che l’Italia è citata in questo novero. La considero una dichiarazione grave, perché l’Italia è sempre stata apprezzata in Libano per il lavoro che svolge, non sono per l’Unifil. Mettere il nome dell’Italia mi sembra fuori luogo. Anche perché inizialmente doveva far parte delle forze chiamate a contrastare gli Houthi nel Mar Rosso poi si è defilata: non è stata mandata nessuna fregata come invece si era ipotizzato inizialmente.
Ci sono stati altri attacchi israeliani all’aeroporto di Damasco e soprattutto non si è spenta ancora l’eco dell’uccisione del generale Seyed Razi Mousavi, della Guardie della Rivoluzione islamica iraniana. Altri elementi di tensione che aumentano il rischio di escalation?
Il ministro della Difesa Gallant ha detto che Israele viene attaccato su sette fronti e che ha già reagito su sei. Ha indicato quali sono questi sei ma non ha chiarito qual è il settimo. Qual è il senso di questo messaggio, che l’attacco all’Iran è imminente? Perché è chiaro che si parla dell’Iran. Stiamo passando dalla guerra segreta che si conduce già da anni in Siria, in Iran, nel Mar Arabico, nel Golfo dell’Oman a una guerra diretta? Da una parte e dall’altra si sta giocando ad alzare i toni. Penso comunque che fino a che Teheran riuscirà a gestire la situazione attraverso i suoi proxy (Hezbollah, gli Houthi e altre milizie, nda) non si farà trascinare nel conflitto.
È uscita anche una dichiarazione per cui secondo i pasdaran l’attacco del 7 ottobre sarebbe stata la risposta all’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani morto il 3 gennaio 2020 all’aeroporto di Baghdad: una ricostruzione credibile?
Una versione falsa che Hamas si è affrettata a negare fu una decisione al 100 per cento palestinese. Poi, tuttavia, c’è stata una smentita anche della stessa dichiarazione iniziale. Vedo un’accelerazione di dichiarazioni e minacce in cui si allude all’Iran e a un eventuale coinvolgimento di questo teatro. Per ora ci basta questo, anche perché ogni giorno di guerra causa una perdita di 104 milioni di euro per l’economia di Libano, Giordania ed Egitto, senza che siano coinvolti militarmente.
Quanto influisce la guerra dal punto di vista economico?
Secondo calcoli del Programma ONU per lo sviluppo e la Commissione economica sociale per l’Asia occidentale, per i primi tre mesi il danno è stato di 9,3 miliardi di perdita di Pil, il 2,3%. Se la guerra continuasse altri tre mesi i danni complessivi ammonterebbero a 18 miliardi. Un calcolo che non comprende i danni provocati all’Egitto per la riduzione del traffico marittimo sul Canale di Suez, che all’anno frutta 8 miliardi e mezzo di euro. I danni riguardano soprattutto il turismo. A Betlemme c’erano gli alberghi vuoti, e i ricavi natalizi qui sono i due terzi di quelli dell’intero anno. Anche in Giordania hanno avuto il 60% di cancellazioni delle prenotazioni alberghiere. Un motivo in più per cercare di smettere di combattere, per darsi una calmata e finirla qui.
(Paolo Rossetti)
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