Questo non è un articolo di cronaca, di commento immediato o di analisi politica a quanto sta accadendo in Israele e a Gaza. Ce ne sono di ottimi sul Sussidiario.

È necessario prendersi una pausa di riflessione, di sospensione del giudizio sui torti e le ragioni delle parti in conflitto. E di considerare la vicina realtà come fosse all’altro capo del mondo. Esperimento difficile ma necessario per capire qualcosa nei fatti odierni.



Quello che vorrei dimostrare è che le parti in causa nel conflitto israelo-palestinese sono affette da una distorsione che induce a cadere in uno schema di azione disfunzionale. Per quanto riguarda i palestinesi, per lo meno per Hamas, consiste nel credere che essere “dalla parte della ragione” legittimi immediatamente l’uso di tutti gli strumenti e metodi di lotta, anche illegali, e che il loro impiego sia di per sé efficace, e conduca ad una vittoria politica. Vittoria che per Hamas arriva fino all’eliminazione dello Stato di Israele.



I fatti sociali però sono qualcosa di complesso, presentano aspetti e significati molteplici che si intrecciano in modo ingarbugliato tra loro. Dipanarli non è facile, specialmente quando di mezzo ci sono i sentimenti, le passioni, l’identità.

I fatti sociali che riguardano la guerra sono ancora più difficili da analizzare specialmente in quei conflitti dove non esiste la vittoria totale come nella seconda guerra mondiale, quando la sconfitta militare dell’Asse si risolse immediatamente in una sua sconfitta politica. Guerra mondiale, esempio puro di guerra totale combattuta fino all’estremo, a sigillo il fungo atomico su Hiroshima e Nagasaki.



Un atto militare può essere visto e analizzato secondo diverse prospettive. Morali, legali, militari e politiche. I quattro elementi non sono allineati, né occupano sempre lo stesso posto in un’ipotetica scala gerarchica che muta a seconda di epoche storiche, contesti, nazioni.

La prima caratteristica dell’uso dello strumento militare è quella che lo vede collegato alla sua funzione propria, l’uso della violenza per piegare la volontà dell’avversario. Ricorso alla forza necessario e utile sole se capace di raggiungere l’obiettivo bellico e politico prefissato. La guerra si rivela perciò un esempio classico di azione pratica, che deve cioè rispondere ai requisiti di efficienza ed efficacia, mutevoli di volta in volta. La guerra come arte per eccellenza.

Ma non basta. L’efficacia di un’azione di guerra, a sua volta, non si misura solamente sul piano militare. La vittoria deve rappresentare un passo verso il raggiungimento dell’obiettivo politico per cui la guerra è stata intrapresa. Le vittorie militari da sole infatti non bastano per vincere la pace; nella storia ci sono casi in cui le sconfitte militari si risolvono in vittorie politiche come anche l’opposto.

Continuando il ragionamento, un atto bellico deve anche rispettare il diritto internazionale di guerra, deve essere conforme ai quei principi espressi in modo razionale per la prima volta da San Tommaso; deve conformarsi allo jus in bello – la condotta della guerra – e allo jus ad bellum – per l’analisi delle ragioni che conducono alla guerra.

Infine, criteri militari, politici e legali non completano lo spettro degli elementi del giudizio. Valutazioni morali ulteriori possono intervenire e influenzare la guerra e le singole azioni.

Ci sono dunque quattro criteri da rispettare per un’azione armata. Legittimità, legalità, efficacia militare e politica. Ma con un’avvertenza, che la valutazione che conta, quella più importante, è rappresentata dalla capacità di raggiungere tramite l’impiego della violenza l’obiettivo politico. Il resto segue.

È questo il punto centrale di una critica totale nei confronti dell’azione di Hamas, che con l’attacco di un mese e mezzo fa, aggredendo Israele con il lancio di qualcosa come 2mila razzi, ha violato lo jus ad bellum e con l’uccisione di 1.200 persone e il rapimento di 130 non combattenti ha ripetutamente violato lo jus in bello.

Azione non solo criminale, ma anche irrazionale, perché manca completamente l’obiettivo politico: la costrizione della volontà di Israele. Anzi lo induce ad una reazione spietata. Per poi sperare in una controreazione globale. E infatti Hamas aveva e ha bisogno per il successo del suo attacco dell’intervento di attori esterni, dall’apertura di un secondo fronte in Cisgiordania all’intervento dei libanesi e sciiti di Hezbollah, all’aiuto dell’Iran. Attenzione, non dell’aiuto politico, diplomatico, o dell’invio di armi, ma proprio dell’intervento militare. Cioè dichiara i propri limiti, la propria incapacità e impotenza, sperando che Israele si stanchi, che l’opinione pubblica internazionale si indigni per la rappresaglia di Israele, che gli amici “arabi” e musulmani intervengano.

Riassumo. Tre sono gli errori politici enormi della dirigenza palestinese. Il primo: pensare che se i palestinesi hanno, o credono di avere (che è uguale), diritto alla propria terra, possano ricorrere alla lotta armata, compreso il terrorismo, cioè possano praticare intenzionalmente l’omicidio di innocenti. E che il ricorso alla violenza porti di per sé alla vittoria, cioè che quello strumento sia razionale.

Secondo errore: fare affidamento, per vincere la guerra, sull’aiuto degli amici, basandosi sull’affinità ideologica etnica o religiosa, senza calcolare che gli interessi in gioco possano divergere, che un conto sia la solidarietà dimostrata a suon di dollari e armi, un altro scatenare una guerra regionale dagli esiti incerti ma comunque costosi e dolorosi.

Ma – terzo errore – l’uso del terrorismo contro Israele non funziona, non può funzionare. Israele non è la Francia, che si poteva ritirare dall’Algeria, né gli Stati Uniti, che sono potuti uscire dal Vietnam e dall’Afghanistan. Israele ha solo quella terra e nessuna profondità geografica. Ogni minaccia alla sua sicurezza diventa una minaccia esistenziale a cui rispondere con tutta la forza. La sua volontà, rafforzata dalla memoria dell’Olocausto, è ferrea, non può vacillare, pena la sua fine. O il ricorso all’arma nucleare. Israele, dulcis in fundo, può contare su di un alleato, come gli Stati Uniti.

Questa è la dissonanza cognitiva che affligge i palestinesi!

Ritenersi dalla parte della ragione non porta alla vittoria, non è sinonimo di essa, non rende razionale qualsiasi uso della forza. Hamas ha fatto lo stesso errore commesso da Arafat ai tempi del “Settembre nero”, quando i palestinesi erano rifugiati in Giordania dopo la guerra dei Sei giorni e pretendevano di portare attacchi armati in Israele dal territorio giordano, e volevano muoversi come un esercito in casa d’altri, Stato nello Stato. Con il risultato di indurre Hussein, re di Giordania, a disarmare l’OLP dopo una guerra feroce durata dieci giorni nel 1970, ma che si protrasse ulteriormente, e che causò decine di migliaia di vittime tra fedayn e civili palestinesi. Recidive, le organizzazioni palestinesi si trasferirono in Libano nei campi profughi dove se non causarono, si immischiarono nelle tensioni tra musulmani, sciiti e sunniti, e cristiani, fino a prendere parte alle guerre civili che sconvolsero la terra dei cedri. Con il risultato di ottenere da parte dell’OLP l’espulsione da Beirut e il trasferimento del suo quartier generale a Tunisi. Tutte scelte politiche che causarono la morte, inutile, di decine di migliaia di civili innocenti.

Se i palestinesi vogliono uno Stato, una propria terra su cui vivere, devono accettare la realtà dell’esistenza di Israele, smettere di pensare che altri Paesi siano disposti ad una guerra scelta da altri, e smettere di guardare al passato, ai torti e alle ragioni della storia.

Per quello che conta il mio pensiero, anche alcuni in Israele cadono nello stesso identico schema “disfunzionale”, come direbbero gli psicologi sociali, e pensano che “l’aver ragione” consenta di per sé qualsiasi azione sul piano militare. E che a sua volta una vittoria sul campo sia razionale ed equivalga ad una soluzione politica del conflitto.

Adesso con l’esercito israeliano entrato a Gaza, con i bombardamenti, le migliaia di palestinesi morti, le distruzioni, i problemi sul campo sono a dir poco moltiplicati. Adesso da risolvere vi sono anche  la messa in sicurezza della Striscia, la gestione istituzionale e politica del territorio, i costi della ricostruzione. E sullo sfondo, ancora la mancanza della soluzione della convivenza di due popoli.

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