Una forte presa di posizione contro Tel Aviv, ma anche un’intensa attività diplomatica per promuovere la definizione di due Stati secondo un piano che prevede quattro nazioni cha facciano da garanti, due per Israele e due per la Palestina. La Turchia nella crisi mediorientale è solo apparentemente defilata, in realtà è molto presente in virtù della sua stretta alleanza con il Qatar, Paese molto attivo nella gestione del dossier ostaggi e della tregua necessaria per assicurare lo scambio con i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
Il Qatar, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, è una sorta di protettorato turco ed Erdogan agisce anche attraverso il suo alleato. Il presidente e il suo ministro degli Esteri Hakan Fidan hanno sondato anche le cancellerie occidentali: sono stati in Gran Bretagna e in Germania anche per perorare la causa del cessate il fuoco. Ma accusano apertamente Israele di crimini di guerra. Dichiarazioni che fanno agio anche all’interno del Paese in vista delle elezioni locali del marzo prossimo.
Qual è il ruolo della Turchia nella crisi mediorientale? La posizione di Erdogan, a parte qualche dichiarazione iniziale a favore di Hamas, appare defilata.
Ho appena partecipato un summit dove c’era Erdogan: accusa a spada tratta Israele di commettere crimini contro l’umanità, di genocidio. Anche internamente c’è un grande attivismo nello screditare Tel Aviv. La presidenza turca è stata molto abile in questo, creando dei bollettini in cui si mettono in risalto le fake news israeliane riguardo al conflitto. Si denuncia l’uccisione di tanti reporter di guerra, tra i quali anche alcuni giornalisti che lavorano per testate turche. Nelle retrovie la diplomazia lavora per realizzare il meccanismo quadripartitico proposto proprio dai turchi: due popoli e due Stati con quattro nazioni (due per Israele e due per la Palestina) che facciano da garanti dell’accordo. Il ministro degli Esteri Hakan Fidan è andato con l’organizzazione degli Stati islamici in Gran Bretagna, da Cameron, così come Erdogan è andato a Berlino per discutere della necessità di trovare le condizioni per un cessate il fuoco.
La diplomazia turca agisce anche nei confronti dei Paesi islamici e arabi?
Credo che dietro al Qatar ci sia una grande spinta della Turchia, l’accordo che ha portato al cessate il fuoco è stato sostenuto anche dai turchi. Ankara è il principale sponsor del Qatar, anche quando c’è stata la crisi del Golfo e il Qatar era isolato, la Turchia è stato l’unico Paese che ha dato sostegno economico e militare. Il Qatar è un po’ un protettorato turco, non per niente nell’emirato ci sono basi militari turche. Sono sulla stessa linea anche per la considerazione di Hamas. La Turchia, quindi, è molto attiva e il suo presidente, che inizialmente era più prudente, oggi parla apertamente contro Israele. Aveva dato la luce verde per l’ingresso della Svezia nella Nato, in realtà il Parlamento negli ultimi giorni ha rallentato l’iter: c’è un forte disappunto nei confronti dell’amministrazione americana, tanto è vero che quando il segretario di Stato americano Blinken è andato ad Ankara, Erdogan non lo ha ricevuto. C’è risentimento anche nei confronti di alcuni Paesi europei. A Berlino Erdogan ha parlato della fornitura degli Eurofighter, un dossier che non è ancora stato definito.
I rapporti con l’Occidente si sono un po’ deteriorati?
La Turchia è consapevole di aver urtato i nervi di molte cancellerie occidentali a seguito della dichiarazione di Erdogan secondo la quale Hamas non è un’organizzazione terroristica.
Il piano turco dei quattro garanti per la soluzione che prevede due popoli e due Stati ha trovato sponde nei Paesi dell’area e in quelli occidentali?
Il Qatar dà retta alla Turchia e c’è una sorta di linea diretta con l’organizzazione dei Paesi islamici. C’è più attrito, invece, con le cancellerie occidentali, a parte qualche comunanza di vedute con il governo spagnolo e con i Paesi sudamericani. La carta del meccanismo quadripartito è ancora la locomotiva delle dinamiche diplomatiche di Ankara. La priorità turca è per il cessate il fuoco, anche se Erdogan ha denunciato, nell’ultimo vertice dell’organizzazione degli Stati islamici, di considerare Israele criminale di guerra, mettendo in luce il fatto che Tel Aviv ha la bomba atomica e che in ultima istanza potrebbe usarla. C’è anche una denuncia contro il sistema internazionale che si astiene dall’adottare risoluzioni forti contro Israele. All’atto pratico, comunque, dietro quinte, non si registra nulla di nuovo: gli scambi commerciali con Israele continuano ad andare avanti. Si conferma la tendenza storica tra Ankara e Tel Aviv: dopo ripetute crisi, e la normalizzazione del 2022, un’altra crisi; l’ambasciatore israeliano ha lasciato il Paese ed Erdogan ha richiamato i suoi diplomatici in Turchia.
L’attivismo interno contro Israele è dovuto anche alle elezioni amministrative in vista? Il presidente vuole riconquistare le grandi città promuovendo anche lì, sulla scorta delle dichiarazioni anti Israele, un’immagine più tradizionale e islamica del Paese?
Geneticamente tutte le volte che ci sono state delle tensioni con Israele il popolo turco si è schierato dalla parte dei palestinesi, per la maggior parte: è proprio una questione di fratellanza insita nel Dna dei turchi. Certo è che l’equilibrio è ancora più delicato, perché a fine marzo si andrà a elezioni locali, nelle quali Erdogan mira a riconquistare Istanbul e Ankara, anche se in quest’ultima città la partita sembra più difficile. Proprio sulla questione israelo-palestinese si stanno delineando delle nuove alleanze.
Di fatto, comunque, se vogliamo capire la posizione della Turchia nella crisi mediorientale dobbiamo guardare al Qatar?
Sì. Di suo la Turchia agisce nell’ambito emergenziale e umanitario: continuano ad arrivare convogli per portare gli aiuti. Erdogan personalmente ha portato negli ospedali turchi malati palestinesi, soprattutto oncologici.
(Paolo Rossetti)
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