A Gaza sono stati commessi “crimini gravi”: imputabili all’“esercito israeliano” oltreché “ad Hamas e alla Jihad islamica”. Tuttavia non è stato consumato ai danni del popolo palestinese alcun “genocidio” paragonabile alla Shoah. La posizione – tanto netta quanto articolata – è stata espressa dalla senatrice a vita Liliana Segre, in una riflessione, per la prima volta strutturata, sulla crisi mediorientale.



Segre – reduce e testimone internazionale della Shoah – è intervenuta a 420 giorni dal massacro perpetrato da Hamas (1.200 vittime israeliane) e dopo che la reazione di Israele ha ucciso oltre 44mila palestinesi a Gaza (in gran parte civili) distruggendo sistematicamente l’habitat di due milioni di abitanti della Striscia, il principale territorio reclamato dal popolo palestinese e loro assegnato fin dal 1967 da una risoluzione Onu.



La senatrice ha deciso di scrivere sul Corriere della Sera poche ore dopo il cessate il fuoco fra Israele e Libano, al termine di un’offensiva in uno Stato sovrano che ha causato altre 3.500 vittime, in larga parte civili palestinesi e libanesi, anche nella capitale Beirut. Pochi giorni prima, il premier israeliano Bibi Netanyahu era stato oggetto di un mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale (Cpi) per crimini di guerra a Gaza: iniziativa peraltro subito contestata dagli Usa e messa in discussione anche da grandi Paesi europei come la Francia e la Germania. È su questo fronte che la comunità ebraica internazionale – almeno per larga parte – sta avviando evidenti sforzi lobbistico-mediatici per sostenere la causa israeliana in un “day after” che si profila problematico, dopo una probabile dichiarazione unilaterale di “vittoria totale” in arrivo da parte di Gerusalemme su Gaza.



Il dopoguerra geopolitico nella regione si annuncia all’insegna della ripresa degli Accordi di Abramo, siglati da Netanyahu a Washington nel gennaio 2020 con il presidente Donald Trump, ora rieletto alla Casa Bianca. Quella cornice di “pace in Medio Oriente” (mai archiviata dall’amministrazione Biden) prevedeva da un lato la costruzione di un nuovo “ordine” imperniato sull’asse fra Israele e Arabia Saudita, saldamente agganciato agli Usa anche in funzione anti-Iran; e dall’altro l’annessione di larga parte dei Territori (con il superamento definitivo di ogni ipotesi di “due Stati”) a fronte di una strategia di aiuti economici ai palestinesi.

Netanyahu e il suo governo (sostenuto principalmente da forze dell’estrema destra religiosa) devono però nell’immediato parare e disinnescare il missile legale puntato dalla Cpi in conseguenza della catastrofe umanitaria a Gaza e di una continua escalation militare, giustificata sempre più a fatica con uno storico “diritto a difendersi” da parte dello Stato ebraico. Nel frattempo, la coalizione Netanyahu non demorde – all’interno del Paese – dai tentativi di metter mano all’architettura della democrazia costituzionale, per fronteggiare le accuse giudiziarie pendenti sul premier – da prima del 7 ottobre – e forse anche per prevenire gli esiti delle future investigazioni sugli ultimi quattordici mesi.

Degli ultimi giorni è – fra l’altro – il boicottaggio formale ordinato dal governo verso Haaretz, il principale quotidiano di opposizione israeliano. Un’escalation specifica dopo l’espulsione da Israele di Al Jazeera e il divieto assoluto per i media internazionali di entrare a Gaza per documentare la guerra. Né è sfuggito agli osservatori il fatto che il primo leader Ue a invitare Netanyahu a dispetto del mandato d’arresto Cpi sia stato Victor Orbán, premier ungherese e presidente di turno dell’Unione Europea (Budapest è diventata nel frattempo l’hub pro-tempore della nazionale di calcio israeliana).

È in questa cornice vasta di controffensiva politico-mediatica che risulta inevitabilmente attratta anche l’uscita della senatrice Segre: la quale non manca – certamente – di confermare una contrarietà e una deplorazione più volte espresse per le sofferenze imposte dalla guerra alle popolazioni civili (tutte), in particolare ai bambini. Il cuore dell’intervento presenta tuttavia indubbi connotati politici: a cominciare dal fatto che la presa di posizione è maturata in tempo reale rispetto alla “vittoria totale” acquisita dal governo Netanyahu. Nel merito spiccano due distinzioni, entrambe non prive di rilevanza.

La prima: la guerra di Gaza, per quanto cruenta, non può essere in alcun modo avvicinata all’Olocausto. Il Genocidio resta uno solo: quello nazista contro gli ebrei europei. Questo al di là della citazione – rara da parte di un alto esponente della comunità ebraica internazionale – di altri genocidi: quello armeno, quello dei kulaki ucraini piuttosto che quello di Pol Pot in Cambogia. Un’argomentazione-concessione dialettica non sembra tuttavia cancellare il punto di caduta sostanziale: è la Memoria dell’Olocausto ebraico a rimanere “assoluta”, a dover continuare a restare tale: a cominciare dal rispetto dovuto alla Giornata che la senatrice Segre si appresta per prima a celebrare il prossimo 27 gennaio, a 80 anni dalla liberazione di Auschwitz.

Chiunque fra due mesi, in nome della guerra di Gaza, vorrà contestare quella Memoria (e la stessa senatrice, attaccata più volte dalle piazze anti-israeliane) continuerà quindi a macchiarsi del crimine “assoluto” di antisemitismo. Certamente crimine morale – un reato laddove una legislazione nazionale lo preveda – e d’altra parte crimine geopolitico/diplomatico, laddove il governo israeliano considera inflessibilmente “antisemita” ogni contestazione od opposizione “antisionista”. Ne sanno qualcosa professori e studenti dei grandi campus Usa, colpiti da licenziamenti ed espulsioni a raffica. Ne sa qualcosa lo stesso presidente uscente Biden, di fatto rimosso dalla corsa alla Casa Bianca da Netanyahu in persona, volato a Washington su invitato dai senatori repubblicani a tenere un discorso davanti al Congresso, quattro mesi prima che Trump trionfasse infine nel voto.

La seconda distinzione rilevabile nell’uscita della senatrice Segre appare più squisitamente tecnico-legale e sembra inserirsi in una specifica strategia diplomatica abbozzata dal governo di Gerusalemme all’indomani del cessate il fuoco in Libano. Il cardine è l’appello alla stessa Cpi – accettando quindi una forma di suo riconoscimento – perché ritiri i mandati d’arresto contro il premier e contro l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, dimessosi da poco in polemica con Netanyahu. Il riferimento aperto e diretto all’Idf non appare dunque casuale e va d’altronde a incunearsi nelle fratture apertesi fra il governo e i vertici delle forze armate e dei potenti servizi di sicurezza di Gerusalemme.

Da un lato, Netanyahu ha finora sempre rifiutato all’interno di assumersi responsabilità per la tragica débâcle del 7 ottobre (il peggior massacro di civili ebrei dalla Shoah, al netto del dramma degli ostaggi rapiti da Hamas) lasciando talora trasparire sospetti e accuse verso Idf, Mossad e Shin-bet. Dall’altro il premier ha finora sempre ignorato anche ogni denuncia esterna per la sanguinosa reazione militare a Gaza: che per la Cpi si sarebbe invece risolta in una vendetta terribile, condotta al di fuori della legalità internazionale di guerra. Dentro l’Idf – tradizionale fucina di una classe dirigente laica  nel Paese – la guerra ha intanto fatto crescere una leva di ufficiali vicini ai partiti estremisti della coalizione: in particolare a Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale, e a Bazalel Smotrich, ministro della Finanze.

Sono loro, fra l’altro, i leader del movimento dei coloni, sempre più aggressivi in Cisgiordania e ora pronti ad occupare e “ricostruire” anche Gaza, dopo quella che gli accusatori di Israele qualificano come “pulizia etnica”. L’opzione annessionista (indirettamente contrastata dalla senatrice nel suo intervento) sarebbe sostenuta anche dall’ala “governativa” degli alti gradi militari, avanzando motivazioni di sicurezza. La “vecchia guardia” sarebbe intanto tenuta sotto scacco con la minaccia di inchieste giudiziarie ed epurazioni per il 7 ottobre e per i – presunti – crimini di guerra a Gaza (continua a non essere smentito che fra le “vittime collaterali” delle operazioni Idf vi siano stati anche ostaggi israeliani). Per tutti i generali – per tutti i militari israeliani che hanno combattuto a Gaza, per Gallant e per i politici componenti del “gabinetto di guerra” di Gerusalemme – il futuro si presenta in ogni caso incerto e prevedibilmente caratterizzato da accuse reciproche, soprattutto nelle indagini che verranno condotte dalle diverse autorità del Paese, che potrebbero essere considerate valide anche dalla Cpi o in altre sedi internazionali.

In questo quadro, appare oggettiva la cautela della senatrice Segre nel mettere nel mirino il premier israeliano: che ha condotto in porto con successo la sua missione di difesa del Paese, anzitutto dalla minaccia portata dal terrore islamico. Non manca neppure un (abile ma dibattibile) “caveat” storico verso chi dovrà indagare sui militari israeliani: non dimentichino i bombardamenti-strage di Dresda e Hiroshima, che gli alleati angloamericani decisero per abbreviare la guerra delle democrazie occidentali contro il nazismo tedesco e l’imperialismo giapponese.

È una posizione attendista che – a lato della riaffermazione personale di “antifascismo” – pare non lontana da quella del governo italiano, da sempre allineato con gli Usa su Israele. La senatrice appare invece nell’occasione non così vicina al Presidente della Repubblica che l’ha nominata: il “cattodem” Sergio Mattarella, da sempre pensoso sul dramma di Gaza e attento ai cortei giovanili filo-palestinesi. Ma fra i destinatari dell’intervento – a Roma – non pare escluso neppure Papa Francesco: che sembra avere sempre meno dubbi che Gaza sia stata teatro di un “genocidio”.

 

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