Il conflitto scatenato da Hamas, il 7 ottobre scorso, con l’Operazione “Diluvio Al-Aqsa”, lanciata contro Israele nel giorno successivo al cinquantesimo anniversario dell’inizio della guerra dello Yom Kippur (6-25 ottobre 1973) non  solo ha causato la morte di almeno 1.400 persone, per la maggior parte civili, e la cattura di circa 240 ostaggi, ma ha suscitato l’immediata risposta delle forze armate israeliane (Operazione “Spade di Ferro”) con bombardamenti aerei,  blocco della Striscia di Gaza e attacchi di terra e dal mare. L’intensità della reazione israeliana, che ha comportato, negli ultimi trenta giorni, la morte di circa 10mila civili, tra cui un gran numero di minori e di donne, non poteva non avere significative ripercussioni anche sul piano delle relazioni diplomatiche intrattenute con Israele.



Se nelle relazioni politiche fra due Stati aumenta la tensione, la prassi evidenzia un crescendo di situazioni. Di regola, si inizia  con la convocazione del capo missione al ministero degli Esteri, per protestare, oralmente o in seguito con nota scritta, contro la condotta dello Stato accreditante. A ciò può seguire il richiamo in patria del capo missione per consultazioni, lasciando in sede un incaricato d’affari ad interim, situazione che, nei casi più gravi, può prolungarsi nel tempo e affievolire le relazioni diplomatiche. Lo Stato accreditatario può, inoltre, procedere alla dichiarazione di persona non grata del capo missione o di altri membri del personale diplomatico dello Stato inviante, chiedendone il richiamo entro il termine stabilito e, in caso di rifiuto, ordinandone l’espulsione. Lo Stato accreditante, a sua volta, può decidere di richiamare il proprio personale diplomatico e anche di chiudere la missione.



La rottura delle relazioni, invece, si concretizza allorché uno Stato decida di richiamare i propri agenti accreditati presso l’altro e, contemporaneamente, decida di porre termine alla missione degli agenti diplomatici dello Stato estero accreditati presso di sé. La rottura può essere completa, cioè comprendere anche la cessazione delle relazioni consolari. Uno Stato terzo, con il consenso dello Stato ricevente, può assumere, attraverso la propria missione diplomatica, la protezione dei locali e degli interessi dello Stato estero.

Nel caso presente le cancellerie hanno preferito il richiamo in patria per consultazioni del proprio capo missione a Tel Aviv, effettuata finora da otto Stati, di cui due dell’America meridionale (Cile e Colombia) uno dell’America centrale (Honduras) tre del Medio Oriente (Giordania, Bahrein e Turchia) e due africani (Ciad e Sudafrica, che ha richiamato non solo il capo missione ma anche tutto il personale diplomatico). I richiami sono stati invariabilmente motivati dalla reazione militare israeliana, considerata sproporzionata e, in particolare, contraria alla norma di diritto internazionale consuetudinario che vieta di colpire la popolazione civile, anche per rappresaglia. Soltanto la Bolivia, finora, ha scelto l’immediata rottura delle relazioni diplomatiche.



A richiamare i capi missione a Tel Aviv sono stati inizialmente alcuni Stati latino-americani. Per primo il Cile, che ospita il più numeroso gruppo di popolazione palestinese al di fuori del mondo arabo: il 31 ottobre, subito dopo il primo attacco a Gaza che ha coinvolto la popolazione civile, il presidente cileno, Gabriel Boric, ha richiamato l’ambasciatore a Tel Aviv, rinvenendo, nella condotta bellica israeliana, una violazione del diritto internazionale umanitario. Lo stesso giorno vi ha proceduto la Colombia, il cui presidente Gustavo Petro, dopo aver definito come “neo-nazista” la condotta di Israele, suscitando l’immediata reazione dell’ambasciatore di Tel Aviv, ha affermato che il capo missione sarebbe tornato soltanto quando Israele avesse “cessato di massacrare i palestinesi”. Pochi giorni dopo, il 3 novembre, anche il presidente onduregno Xiomatra Castro ha deciso il richiamo del capo missione, alla luce della grave situazione umanitaria sofferta dalla popolazione civile della Striscia di Gaza. Vale la pena di ricordare che, nel giugno 2021, l’Honduras, al tempo presieduto da Juan Orlando Hernández, decise di spostare la sede della propria missione diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme ed è, attualmente, uno dei cinque Stati che l’hanno quivi mantenuta (Stati Uniti, Guatemala, Honduras, Kosovo e Papua Nuova Guinea).

Nel quadrante mediorientale, il primo a richiamare il proprio capo missione è stato il regno di Giordania, che normalizzò le relazioni con Israele dopo il trattato di pace firmato a Washington D.C. il 26 ottobre 1994. Amman ha accompagnato la misura, adottata il 1° novembre, con la richiesta a Tel Aviv di non far ritornare il proprio capo missione e il personale dell’ambasciata, richiamato all’inizio del conflitto in seguito alle manifestazioni di protesta davanti alla sede diplomatica, fintantoché il conflitto non sarà cessato e risolta la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza, allorquando anche il proprio ambasciatore tornerà in Israele. Il Re Abdullah, dopo aver condannato ripetutamente Israele e paventato una catastrofe umanitaria a Gaza, ha anche  cancellato l’incontro previsto ad Amman tra il presidente statunitense Joe Biden, il presidente della Palestina Mahmoud Abbas e il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi.

Ancora, nel Medio Oriente, il Consiglio dei Rappresentanti del Parlamento del Bahrein – Stato che aveva stabilito relazioni con Israele nel 2020, nell’ambito dei cosiddetti “accordi di Abramo”, patrocinati dagli Stati Uniti – ha chiesto e ottenuto il richiamo per consultazioni dell’ambasciatore a Tel Aviv, ha proposto di dichiarare persona non grata l’ambasciatore di Israele, intimandogli di lasciare il territorio, di congelare le relazioni economiche con Tel Aviv e di sospendere i voli diretti tra i due Stati. Infine, la Turchia, membro dell’Alleanza Atlantica, ha richiamato l’incaricato d’affari, che attualmente regge l’ambasciata a Tel Aviv, denunciando la perdita della vita di molti cittadini innocenti a Gaza; inoltre il presidente Erdogan ha annunciato di voler cessare qualsiasi rapporto diretto con il premier israeliano Netanyahu.

In Africa, il primo Stato a manifestare la propria condanna attraverso un passo diplomatico è stato il Ciad, paese a maggioranza musulmana, che era stato riconosciuto da Israele nel 1960 al momento dell’indipendenza, ma aveva rotto le relazioni con Tel Aviv nel 1972, su pressione dei Paesi africani musulmani. Tuttavia, nel 2019, dopo la storica visita del premier Netanyahu a N’Djamena, a gennaio, e l’intensificarsi della cooperazione fra i due Paesi, soprattutto nel campo della sicurezza e dell’agricoltura, era stato deciso il ristabilimento e, addirittura, nel febbraio 2023, era stata inaugurata l’ambasciata del Ciad a Tel Aviv, alla presenza del presidente ciadiano Mahamat Idriss Déby Itno e dello stesso Netanyahu. Nondimeno, il 4 novembre il Ciad ha richiamato per consultazioni il proprio incaricato d’affari, condannando anch’esso le gravi perdite di vite umane tra la popolazione civile a Gaza.

Al Ciad si è aggiunto il Sudafrica, che il 6 novembre ha richiamato per consultazioni sia il capo missione sia il personale diplomatico di stanza a Tel Aviv, per una valutazione approfondita della situazione e per segnalare la propria inquietudine; il governo di Pretoria ha, ovviamente, espresso solidarietà ai palestinesi ed ha paragonato l’occupazione illegittima da parte di Israele alla propria esperienza di apartheid.

Finora il passo della rottura delle relazioni diplomatiche è stato compiuto soltanto dalla Bolivia, il 31 ottobre, primo Stato, tra l’altro, a reagire dopo l’attacco israeliano al campo profughi di Jabaliya e l’annuncio dell’assedio di Gaza, ritenuto dal presidente Luis Arce una punizione collettiva contraria al diritto internazionale umanitario e un crimine contro l’umanità. Le relazioni tra i due Paesi erano state ristabilite soltanto nel 2020 dopo la rottura decisa nel 2009 dal presidente Evo Morales come protesta proprio nei confronti delle azioni di Israele nella Striscia di Gaza. La reazione di Israele alla rottura è stata virulenta, con l’accusa a La Paz di essere non solo succube del terrorismo e del regime degli Ayatollah iraniani, ma anche contigua ad Hamas.

Occorre rilevare, per concludere, che a un mese dall’inizio del conflitto, i casi di alterazione delle relazioni diplomatiche di Israele si contano appena sulle dita delle mani. Niente di paragonabile con quanto accadde rispetto alla Federazione Russa sia, nel 2018, in occasione dell’avvelenamento dell’ex colonnello russo Sergej Skripal (espulsione di oltre 173 diplomatici russi, riduzione simmetrica del numero complessivo degli agenti diplomatici e consolari e chiusura di consolati) sia, nel 2022, a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina (oltre 200 dichiarazioni di persona non grata). Tuttavia è significativo che a compiere questi passi contro Israele siano Stati di quel sud del mondo sempre più insofferente dell’egemonia occidentale.

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