Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich sono gli alleati di governo di Benjamin Netanyahu. Smotrich, leader di Sionismo Religioso e ministro delle Finanze, ha chiarito le proprie intenzioni già da dicembre scorso parlando alla Radio dell’IDF, le forze armate israeliane: “La soluzione corretta per il conflitto è incoraggiare l’emigrazione volontaria da Gaza verso Paesi disposti ad accogliere i rifugiati che vi si rifaranno una vita. Dobbiamo impedire che a Gaza rimangano due milioni di palestinesi che sognano la distruzione di Israele. Noi peraltro non vogliamo governarli. Se in definitiva vi resteranno centomila o duecentomila arabi, tutto l’assetto relativo al dopo-distruzione di Hamas cambierà”.
Al Sisi dopo queste dichiarazioni ha spedito al confine con Gaza centinaia di carri armati. Non per attaccare gli israeliani. Ma per impedire ai palestinesi di entrare in Egitto. Ben Gvir non ha esitato a prendere contatti con il governo del Congo, alla ricerca di un Paese disponibile a pagamento a farsi carico del trasferimento dei palestinesi. Non solo lo Stato palestinese non è più nell’agenda dei partiti di governo e del leader israeliano ma l’ipotesi di una “Grande Israele” che derivi la sua sicurezza dall’assicurarsi un territorio ampio al punto da tenere lontani gli eventuali aggressori si fa sempre più spazio, in una cultura politica che ormai ha mutato geneticamente la filosofia del vecchio Likud e si nutre della pericolosa ipotesi di potere ricavare sul suolo libanese lo spazio per la distruzione di Hezbollah e nel contempo per l’emarginazione forzata di decine di migliaia di nuovi profughi palestinesi.
Finita la guerra a Gaza, infatti, il rischio che contro il parere dei capi militari di Israele il governo tenti un’impresa con le armi spianate nel sud del Libano è molto alto. Hezbollah ne è consapevole, e teme oltremodo, al di là delle solite dichiarazioni impavide, proprio questo scenario. Non ha certezza infatti delle reazioni delle altre componenti del complesso mosaico libanese in circostanze oggi così difficili, con un Paese stremato dalla crisi economica e ulteriormente provato dalla presenza di milioni di rifugiati siriani.
La strategia di Netanyahu si fonda su un ragionamento semplice e cinico: la guerra ad oltranza tiene lontano gli israeliani dal voto. Cioè un dibattito nell’opinione pubblica che potrebbe riportare l’attenzione dei cittadini su cosa è successo il 7 ottobre 2023 e sulle responsabilità dello stesso Netanyahu.
Mai come oggi la pace in Medio oriente è legata alla natura ed alla salute della democrazia israeliana. Veramente dopo le prossime settimane potrebbe tramontare definitivamente il sogno di Israele. Israele è il sogno di milioni di persone che sperano in un futuro di pace per il popolo ebraico. Ma il vecchio sogno sionista di vivere in pace che da poco meno di centocinquant’anni tiene banco tra gli ebrei sta per essere spazzato via dalla destra colonialista. E non ne verrà niente di buono per il mondo intero.
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