C’è un doppio orologio che scandisce le ore della cruenta guerra che si sta combattendo nella Striscia di Gaza. Il primo è sul polso di Anthony Blinken, segretario di Stato dell’amministrazione americana. Blinken è un diplomatico, in questi giorni fa praticamente la spola, anche due volte alla settimana, tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente, e l’orologio lo ha ricevuto direttamente dal suo presidente Joe Biden.
Il secondo orologio dovrebbe averlo ancora in tasca Benjamin Netanyahu, il primo ministro di Israele che è rimasto al governo per salvaguardare la compattezza del Paese, per adesso, ma che resta il premier più contestato nella storia della Knesset e del popolo israeliano fin dalla sua fondazione.
Dopo il massacro compiuto da Hamas, l’ala terroristica dei palestinesi il 7 ottobre, si è convenuto che Netanyahu rimanesse al suo posto fino alla conclusione della gravissima crisi bellica, anche se c’era chi spingeva perché si dimettesse subito dopo gli errori compiuti nel passato e quelli continuati in questi giorni, mettendo sul suo conto anche il modo in cui Israele si è fatto sorprendere dall’azione di Hamas.
Il tempo segnato dalle lancette dei due orologi scandisce le ore infinite della grave crisi mediorientale e contemporaneamente le divergenze che si stanno verificando tra i due storici alleati: Israele e Stati Uniti. Anzi, una irritata reazione degli Usa verso il governo di Tel Aviv.
Realisticamente, malgrado le sue manovre e il suo attuale impegno, Netanyahu sa benissimo che presto dovrà lasciare, dopo aver compiuto una serie infinita di errori alla guida di una maggioranza che oggi non sfiorerebbe neppure il 30 per cento e che se non ci fosse in questo momento un esecutivo di guerra non sarebbe al potere.
Quindi è anche possibile che l’orologio israeliano sia stato consegnato, dallo storico alleato americano, nella mani del comando militare che conduce l’avanzata di Israele verso il quartiere generale di Hamas a Gaza, fino al momento in cui l’avanzata non pregiudichi gli equilibri che ormai interessano il mondo intero. C’è la possibilità che gli americani fermino l’orologio israeliano.
Infatti, se a Tel Aviv si punta al completo annientamento di Hamas, compito piuttosto complesso in una realtà come quella attuale nel Medio Oriente, gli americani non vogliono che si perda tempo in una guerra lunga e logorante, che comporterebbe troppi problemi nell’attuale stato di “guerra grande” che coinvolge il mondo.
Con guerre che si consumano in quasi tutto il mondo, ci sono ormai tre fattori di pericolo letale.
Il primo. È di nuovo scoppiata la grande tragedia del Medio Oriente, l’annosa e mai risolta questione palestinese, con la proposta dei due Stati e l’internazionalizzazione di Gerusalemme ipotizzata fin dal 1947 con la risoluzione 181 dell’Onu. Proposta che ora sembra non sia mai esistita e in tutti i casi nessuna delle grandi potenze e dei grandi organismi internazionali, oltre ai diretti interessati, l’ha voluta veramente realizzare.
Il secondo. La guerra tra Federazione Russa e Ucraina, che in queste settimane sembra quasi dimenticata, ma che purtroppo sta raggiungendo i due anni di durata tragica e sanguinosa. E proprio ieri si è intensificata con attacchi aerei dei russi.
A tutto questo si deve aggiungere il potenziale confronto, sempre presente in un futuro che appare fosco, tra Cina e Stati Uniti.
In definitiva, una grande confusione e concitazione in un mondo profondamente cambiato. Non esiste più una vera potenza egemone e quindi nessuno è più in grado di stabilire, magari di imporre, un ordine mondiale funzionale. In più, è scomparsa una diplomazia efficiente che stabilisca degli accordi che resistano all’usura dei tempi, anche con un ricorso alla deterrenza delle armi, da usare il meno possibile. E infine ci sono gli organismi internazionali che hanno perso il peso politico avuto in passato. Sembrano nuovamente i “sogni” del presidente americano Thomas Woodrow Wilson.
In un simile disordine mondiale come non comprendere che un incidente pericoloso possa capitare da un momento all’altro?
I risentimenti, i rancori, i conflitti aperti stanno portando il mondo sul baratro di una terza guerra mondiale. Inutile nasconderselo. Blinken, grande amico di Israele, ha detto che l’azione israeliana a Gaza, con il bombardamento per le strade, l’azione dei carri armati, la ricerca da parte israeliana dei dirigenti e dei capi di Hamas, nascosti probabilmente nella “città sotterranea” di Gaza, magari vicino agli ostaggi rapiti, sta diventando una azione bellica troppo tragica per i morti che provoca. Un avvertimento secco e deciso.
In termini chiari, non si nega il diritto a Israele di difendersi dopo l’attacco subito il 7 ottobre, ma la difesa degli israeliani non può trasformarsi in una tragedia umanitaria che coinvolge, insieme ai terroristi e al loro quartier generale, anche persone innocenti, migliaia di donne, bambini e uomini che si trovano coinvolti in una guerra che non hanno voluto.
Se l’azione israeliana si prolunga, e non tiene conto delle vittime che fa, della sorte degli ostaggi e delle ripercussioni che ha sui suoi storici nemici, la presa di Gaza fatta in questo modo diventa controproducente per la stessa Israele e acuisce il rischio di una guerra mondiale.
Quello che sta accadendo intorno, tra le corsie e nel sottosuolo dell’ospedale al Shifa a Gaza sembra dettato da un furore fondamentalista che non ha nulla di razionale, che è frutto solo di un odio covato per secoli e mai cancellato.
Quasi inutile riportare gli altri dati di cronaca. Se esistono contrasti persino tra alleati, se gli Stati, gli organismi internazionali, i leader di Oriente e Occidente non ritroveranno il senso di una convivenza umana, resterà solo la tragedia di una nuova guerra mondiale. Che non è solo la sconfitta della politica, ma di secoli di storia e di conquiste sociali.
La guerra, come dice il Papa, è veramente la sconfitta di tutti e di tutto.
Resta quindi al momento solo la speranza di una tregua che contempli i “corridoi umanitari”, le “pause di guerra”, i “cessate il fuoco”. Una speranza maggiore resta un vero, autentico congresso internazionale, dove ci si renda finalmente conto che la convivenza è il fondamento dell’umanità.
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