In questo momento si vedono soltanto gli orrori della guerra, le distruzioni, il male che è stato fatto. Ma la possibilità della pace esiste. Lo testimonia padre Ibrahim Faltas, vicario della Custodia di Terra Santa che in questi anni ha promosso iniziative per ragazzi palestinesi e israeliani, facendo nascere amicizie che durano ancora oggi e che hanno coinvolto anche le rispettive famiglie. Certo, è complicato parlare di dialogo proprio in questo momento, ma la prospettiva di una riconciliazione tra le due comunità non è tramontata, come ha voluto ribadire lo stesso papa Francesco incontrando una delegazione israeliana e una palestinese.
Il dialogo deve aprire a soluzioni definitive, come ad esempio la realizzazione di due Stati, Israele e Palestina, comprendendo in quest’ultima Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, prevedendo inoltre uno statuto speciale per la città di Gerusalemme, che rimarrebbe comunque aperta a tutti. Adesso, però, c’è da risolvere anche il problema degli sfollati da Gaza: qui la soluzione potrebbe essere di realizzare delle strutture provvisorie per ospitare chi non ha più una casa, per fare in modo che la gente non abbandoni il suo territorio, in attesa che gli edifici distrutti vengano ricostruiti. Un’operazione che richiede tempo e risorse.
Padre Faltas, al di là della tregua il conflitto tra Israele e Palestina è segnato da azioni militari di violenza inaudita. È possibile in questo contesto tornare a parlare di pace? Ci sono esperienze di dialogo che possono indicare la strada della riconciliazione?
Certo che c’è la possibilità della pace, essa si costruisce con idee e iniziative: tutti abbiamo l’obbligo di impedire la guerra. Per questo come Custodia di Terra Santa abbiamo fatto partire tanti progetti per educare alla pace, mandando, ad esempio, ragazzi israeliani e palestinesi insieme in Giappone, in Svizzera, in Italia. Abbiamo iniziato dopo il 2002, in seguito all’assedio alla Basilica della Natività, un problema che abbiamo risolto con il dialogo. Eravamo assediati come a Gaza, senza acqua, senza luce, senza elettricità. Durò 39 giorni. In quell’occasione ho fatto il mediatore fra palestinesi e israeliani e ho capito che si poteva dialogare: da qui abbiamo cominciato a sviluppare iniziative per i ragazzi. Siamo stati in Giappone, il 6 agosto a Hiroshima e il 9 a Nagasaki, alle cerimonie per l’anniversario del lancio della bomba atomica, siamo stati ricevuti anche dal sindaco di Hiroshima. Hanno partecipato ragazzi di Gaza e israeliani. Sono diventati amici, si sentono ancora al telefono tra di loro.
Oltre a questa quali altre esperienze avete promosso?
Abbiamo mandato israeliani e palestinesi a studiare all’Università di Perugia, il rettore Maurizio Oliviero è nostro amico. Offriamo loro delle borse di studio. Ci sono progetti con la Fondazione Giovanni Paolo II. Il 15 aprile 2002 il papa, durante l’assedio, nel momento più buio e difficile, mi chiamò. Quando tutto finì facemmo nascere la Fondazione che si occupa di iniziative per educare alla pace. Lavoriamo con i giovani, ma anche con i bambini: abbiamo avviato il Centro Peres, per lo sport. A Gerusalemme abbiamo promosso la scuola del Magnificat, una scuola di musica frequentata da cristiani, ebrei e musulmani: il 6 dicembre saremo a Roma per cantare in un concerto.
Questa amicizia tra i ragazzi diventa anche amicizia tra le famiglie?
Certo. Quando organizziamo gli incontri invitiamo anche le famiglie di tutt’e due le parti.
Qual è l’ostacolo più grande da superare per riuscire a far dialogare Israele e Palestina?
Ora c’è la guerra, è difficile dialogare. Tocca alla comunità internazionale intervenire, almeno per far cessare il fuoco. È iniziata una tregua, speriamo che resista. Concluso il conflitto, con tutti i morti che ci sono stati da entrambe le parti, bisognerà trovare una soluzione: questo è il momento di trovarne una per sempre, due Stati per due popoli che possano vivere in pace in questa terra.
La gente adesso come vive il conflitto?
Durante la guerra prevale la rabbia, ognuna delle due parti ha paura dell’altra. Ci vorrà un po’ di tempo ma credo che entrambi abbiano capito che solo attraverso il dialogo si possono risolvere i problemi, non con la violenza e la vendetta. Sia i palestinesi che gli israeliani hanno pagato care le conseguenze dell’odio: ci sono più dei 6mila bambini morti, 4mila donne, tantissimi feriti.
La difficoltà di dialogare è emersa anche dopo le udienze concesse da papa Francesco, separatamente, a palestinesi parenti dei detenuti in Israele e israeliani familiari dei rapiti da Hamas, incontri ai quali hanno fatto seguito delle polemiche.
Chiedo a tutti di guardare l’aspetto positivo dell’iniziativa del Santo Padre: è stato l’unico in questa situazione che ha chiamato tutt’e due le parti. Le ha incontrate separatamente, ma sono sicurissimo che il Papa ha un progetto: ora ha visto gli israeliani a Santa Marta e i palestinesi in Sala Nervi, la prossima volta li incontrerà insieme. Quando è venuto in Terra Santa nel 2014 ha voluto organizzare un incontro tra Abu Mazen e Shimon Peres, piantando l’albero dell’ulivo. L’anno prossimo, il 15 giugno, si celebreranno i dieci anni: sono sicuro che i due presidenti saranno in Vaticano a ricordare quel momento.
Cosa può dirci dell’incontro di Francesco con le due comunità?
Dopo l’incontro con gli israeliani e i palestinesi ho visto il Papa: stava male, era triste per quello che ha sentito da entrambe le parti, per la loro sofferenza. Di fronte aveva le persone che più sono state ferite da questa guerra.
Si parla molto di Gaza e della Cisgiordania, meno del futuro di Gerusalemme: quale soluzione vede per la città, per garantire la pace?
Gerusalemme è il cuore del conflitto. Nel 1999 Arafat e Barak avevano trovato un accordo, poi è saltato tutto. La soluzione c’è: deve essere una città aperta a tutti e di tutti. Se verrà accettata avremo anche uno Stato palestinese con Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, guidato dalla persona che rappresenta tutto il popolo palestinese, Abu Mazen.
È l’ipotesi che prevede uno statuto speciale per Gerusalemme?
Sì. Gerusalemme Est farebbe parte dello Stato palestinese, ma come il resto della città dovrebbe essere aperta a tutti. Così era prima del 1967.
La guerra a Gaza ha creato una massa enorme di sfollati costretti a spostarsi dalle loro case: che cosa si può e si deve fare per loro?
Il presidente americano Biden e anche Abu Mazen hanno detto che non vogliono altri profughi. Allo stesso modo si sono espressi gli egiziani. Sono senza casa e lo resteranno anche dopo la guerra, ma non devono essere spostati da Gaza. Ci vorranno strutture provvisorie dentro la Striscia in attesa che si ricostruisca la città. Ci vorrà molto tempo, perché la città è stata distrutta.
(Paolo Rossetti)
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