Nel mio feed compare un video diventato virale: avvolto in un lenzuolo sporco di sangue, deposto su un pavimento bianco – un ospedale? un rifugio? – il corpo di un ragazzo. Accanto a lui, inginocchiato, suo padre, il giornalista Wael Al-Dahdouh. Mahmoud, quindici anni: il padre gli tasta il petto. Dieci, undici strette violente, sembra gli strappi la carne di dosso. Guardo solo la mano che si muove convulsa sul corpo. Alla fine la strappa, quella canottiera nera, pago di aver creduto – in un istante di speranza cieca – che lì ancora battesse un cuore.



Noti il volto del giovane: bambino addormentato, meno gli occhi lividi e pesti. Guardi ancora per notare come il padre alla fine si solleva di scatto e pensi che c’è qualcosa di fiero in come lo fa. Il dito però torna sullo schermo, pronto a scivolare più in giù verso nuovi contenuti. Nel feed, sopra il video, ce n’è un altro, del tuo comico preferito, e sotto pure, pronto ad animarsi, un secondo, nel quale si intravedono cuccioli di labrador che si azzuffano. Basta un istante però per realizzare che la guerra, fino ad oggi, non l’hai mai vista così. Chi l’ha mai vista così? Quando mai, prima di oggi, hai visto tanto dramma in mezzo a tanta drammatica banalità? Lì, tra il comico e i cagnolini, quasi in tempo reale, hai accesso alla scena più dolorosa, più intima, sacra e segreta dell’intera vita di un uomo. E basterebbe un tap per obliterarla.



Pochi giorni fa con gli studenti abbiamo visitato le trincee della Grande guerra sul Grappa. Lì la morte fu egualmente atroce. Ma chi la vedeva? La si apprendeva dai dispacci o si presentava nelle lettere di soldati ragazzi poche ore prima della battaglia. Oppure non la vedevi proprio: dei 12mila corpi nel sacrario del Grappa 10mila sono “militi ignoti”, morti senza nome. Certo, poi vennero le foto sul campo – fece epoca quella di Robert Capa durante la guerra civile spagnola – ma ora, di fronte al video di Gaza, è diverso. È stata spazzata via la famiglia di un uomo e tu sei lì accanto al corpo del figlio. Intimità inaudita, Priamo davanti ad Ettore. Ma non sai che fare di tutto questo silenzio in te, e vai oltre.



Ho pensato che ci fu chi tornò dalla Grande guerra e sentì l’urgenza di raccontare a parole quello che aveva visto con i suoi occhi. Chissà quanto questa gente avrebbe desiderato anche mostrare da vicino il disumano, così come noi oggi lo vediamo. Ma – realizzo ora – anche questo non basta: non è sufficiente ricevere le immagini più terribili e commoventi. Perché tutti vediamo le stesse immagini, ma disarmati scrolliamo più giù o, ancora, ci affrettiamo a scegliere la tifoseria in cui schierarci.

Occorrerebbero tempo e pazienza per capire la complessità dietro gli eventi cui assistiamo. Il prurito che abbiamo di puntare il dito e metterci a posto la coscienza dovrebbe lasciare spazio a un percorso di conoscenza. Sì, ma come? Partendo dal colpo. Quello che ti ha fatto fermare davanti ad immagini che non sono come tutte le altre. Il colpo nel petto davanti a Wael e al figlio che muore. Un colpo diretto al vecchio arnese che sente e che pensa: il cuore.

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