Nessuno vuole una guerra allargata ad altri Paesi mediorientali, ma se Israele continua a tirare la corda prima o poi questa si spezzerà, con conseguenze imprevedibili per tutta l’area. Per convincere Netanyahu a rallentare l’intensità delle operazioni, scongiurando l’escalation del conflitto e l’arrivo di oltre due milioni di sfollati nei Paesi vicini, gli Usa, spiega Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa per il Cesi, Centro studi internazionali, potrebbero paventare la possibilità di ridurre il sostegno militare a Israele. Ma si tratta solo di una soluzione estrema, perché attuarla significherebbe cambiare i rapporti tra i due Paesi, forse anche romperli, lasciando gli Usa senza l’unico stretto alleato in Medio Oriente e Israele isolato.



Il punto è che fino a che nessuno reagisce Tel Aviv continuerà nelle sue operazioni militari accentuando il pericolo di un allargamento del conflitto. La guerra, però, sta contribuendo a rendere più profonda la frattura evidenziata in Israele con la protesta contro la riforma della giustizia: le continue manifestazioni che esprimono delusione per l’approccio del governo al tema della liberazione degli ostaggi e anche i litigi nell’esecutivo, dimostrano che il Paese non è così granitico nell’affrontare il conflitto.



L’attentato ad Al Arouri, gli scontri in Libano, i bombardamenti sempre più intesi a Gaza, le frequenti operazioni dell’IDF in Cisgiordania: c’è un modo per scardinare la gestione della guerra di Israele oppure dobbiamo rassegnarci all’escalation?

L’unica cosa che può scongiurare l’allargamento del conflitto è un aumento delle pressioni sul governo israeliano. Ci sono già, ma devono essere portate a un livello superiore. Non tanto sull’economia, fattore importante ma non fondamentale, ma sugli aiuti militari, che gli americani forniscono anche in base agli accordi di Camp David del 1979. È un elemento che potrebbe portare gli israeliani a riflettere, a ragionare diversamente sulla guerra, anche se dubito che, giunti a questo punto, siano disposti a prendere in considerazione qualsiasi tipo di dialogo. Non fosse altro perché la posta in gioco si sta alzando sempre più e Israele sta tentando di fare all-in, per capire fino a dove può arrivare con questo tipo di operazioni.



Ormai, però, il problema non è più solamente Gaza, anche se lì si moltiplicano i segnali che parlano addirittura di una possibile carestia. I fronti di cui tenere conto sono diversi.

Gaza è solo una delle partite che si stanno giocando in relazione ai confini di Israele. Bisogna guardare anche alla Cisgiordania e al confine Nord con il Libano. Una partita complessa, su più livelli, nella quale Israele sta cercando di massimizzare i vantaggi. Gli israeliani devono capire, tuttavia, che azzardare troppo potrebbe significare creare una situazione molto più problematica da gestire anche nel lungo periodo.

Quindi occorrerebbe che gli americani facessero capire ai loro alleati che non saranno più così pronti a sostenere Israele dal punto di vista delle forniture militari? Solo così Israele potrebbe desistere dal sostenere la guerra su più fronti?

Potrebbe essere una strada percorribile, ma è l’ultima ratio: si rischia di arrivare al muro contro muro fra israeliani e americani. Non so quanto entrambe le parti vogliano giungere a questo. Paventare una riduzione degli aiuti allargherebbe quella che è già una considerevole tensione fra i due governi. Israele si troverebbe isolato. E non vale neanche il discorso che Israele negli anni ha costruito rapporti con la Russia e la Cina: la profondità e la storia dei rapporti di Washington con Tel Aviv non è minimamente paragonabile con quella di due attori che agiscono più per interferenza con gli Stati Uniti che per interesse diretto a una relazione strategica.

Il viaggio diplomatico di Blinken nelle capitali mediorientali significa che gli Usa sono molto preoccupati di una eventuale escalation. A Erdogan il segretario di Stato Usa avrebbe chiesto di giocare un ruolo nel dopoguerra. Ma agli altri?

Erdogan può condizionare gli americani giocando la carta Nato, visto che fa parte dell’Alleanza atlantica, il re giordano Abdullah può solo fare più pressioni possibili per la salvaguardia nazionale. Questa guerra, d’altra parte, è uno spartiacque enorme per la storia della regione e per quello che sarà. Già alcuni rapporti sono cambiati. Pensiamo a Giordania ed Egitto: sono gli unici due Paesi che hanno un accordo di pace, ma se si dovesse arrivare a un conflitto non potremmo pensare che quelle intese abbiano un valore. Blinken può solo cercare di tenere sotto controllo i Paesi dell’area, di contenere le spinte che arrivano da più parti. Potrebbe offrire aiuti economici o militari. Il fatto è, comunque, che nessuno può accettare una situazione come questa: è troppo pericolosa.

Il fronte più caldo, in questo momento, sembra quello del Libano. Ma la reazione di Hezbollah dopo l’uccisione di Al Arouri a Beirut non sembra ancora tale da portare a un allargamento del conflitto. È così?

Il rischio di allargamento c’è, ma manca ancora la volontà di realizzarlo. Forse più da parte di Hezbollah che di Israele. Hezbollah è legato all’Iran ma è anche un soggetto che ha una sua autonomia e non vuole essere tirato in ballo per una situazione che coinvolge Israele e Iran. Anche Teheran, da parte sua, non vuole essere coinvolta in qualcosa che potrebbe essere deleterio per il Paese: l’Iran non è che viva una situazione domestica stabilissima. Hezbollah, invece, ha così tante sfide all’interno del Libano, dall’economia alla formazione di un governo, all’elezione del presidente della Repubblica, che la guerra sarebbe l’ultimo di tanti problemi. Andrebbero ad acuire una situazione di caos totale. Senza tenere conto di quello che comporterebbe un allargamento della guerra a livello regionale.

Insomma nessuno vuole l’allargamento, ma la corda a forza di tirarla rischia sempre più di spezzarsi. Intanto Israele ne approfitta e va avanti con le sue operazioni militari proseguendo gli attacchi a Gaza e in Cisgiordania?

Israele sta andando avanti e anche con una certa durezza. Il punto è fino a dove vogliano spingersi e cosa gli altri gli permetteranno di fare ancora.

In Israele il tema della liberazione degli ostaggi è sempre vivo, continuano le manifestazioni pubbliche per spingere il governo Netanyahu a fare qualcosa. Una riunione dell’esecutivo è finita in una sorta di rissa verbale per questioni relative alla responsabilità del 7 ottobre: la guerra sta rendendo sempre più ampia anche la frattura interna al Paese che si era evidenziata nelle proteste contro la riforma della giustizia?

La frattura è evidente, il problema è come ricomporla: la guerra sta amplificando una tensione già presente, tra una società che rivendica una laicità dello Stato e una religiosa che spinge in direzione opposta. Una frattura che si acuirà negli anni e che alimenterà uno scontro sempre maggiore.

Questa frattura potrebbe contribuire a indebolire Israele, esponendolo maggiormente alle pressioni degli Usa e della comunità internazionale?

Solo l’aumento della pressione su Israele può portare a migliorare la situazione. Il problema è vedere quanto Israele sia disposto ad accettare questa pressione: va avanti senza curarsi più di tanto di quello che dicono gli Usa o le altre cancellerie mediorientali. Dobbiamo augurarci che le pressioni americane, europee, anche arabe, possano favorire la de-escalation ma non dobbiamo aspettarcela più di tanto. Anche alla luce degli atti del governo: Netanyahu non la prende in considerazione neanche come ipotesi. Siamo comunque a un punto di rottura totale, è difficile che ci sia qualche possibilità di ritorno allo status quo precedente: siamo in una nuova situazione.

Alla fine il pallino lo hanno in mano gli americani? Tocca a loro fare una mossa per tentare di sbloccare la situazione?

Il pallino ce lo hanno in mano gli israeliani. Gli americani stanno cercando di fare in modo che la situazione non sfugga di mano. Il problema è fino a che punto riusciranno a influenzare Israele.

(Paolo Rossetti)

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