La tregua è stata uno squarcio di luce nelle tenebre. Ma ora il presente della Striscia di Gaza, paradossalmente, sembra più nero di prima. La situazione umanitaria è notevolmente peggiorata, i bombardamenti sono ancora più pesanti e i viveri e i beni di prima necessità sono sempre più scarsi: gli aiuti arrivati attraverso il valico di Rafah non sono sufficienti a soddisfare i bisogni di quasi due milioni di sfollati che si muovono in cerca di un luogo sicuro per evitare che scoppi loro un ordigno in testa.



Il quadro della situazione lo fa Fabrizio Cavalletti, dell’Ufficio Medio Oriente e Africa della Caritas, che ha perso un altro operatore sanitario che lavorava a Gaza. Dopo il decesso, a ottobre, di Viola, una tecnica di laboratorio che aveva perso la vita con marito e figlio, è stata la volta di Issam Abedrabbo, 35 anni, farmacista del Gaza Health Center, originario di Remal, un’area di Gaza City, deceduto a Nusriat in Wadi Gaza. Con lui sono finiti sotto le bombe due figli oltre ad altri familiari. Molti rifugiati, un migliaio in tutto, che avevano trovato riparo nella chiesa ortodossa di San Porfirio e in quella della parrocchia cattolica nel Nord di Gaza, sono scappati e per quelli che sono rimasti ormai è difficile anche trovare viveri. Un disastro umanitario senza confini.



Dopo la tregua, le bombe e la morte sono tornati a segnare la Striscia di Gaza. Anche Caritas deve registrare la morte di un altro suo operatore. Come è successo?

È deceduto uno degli operatori della Caritas di Gerusalemme che era a Gaza, sfollato come tutti gli altri. Era andato al Sud prima della tregua, in una località che veniva considerata sicura. Ma poi hanno bombardato la palazzina in cui si trovava. Una vera tragedia. È rimasto sotto le macerie con due dei suoi figli, la sorella e la mamma e altri civili. Era un farmacista, operatore della Caritas Gerusalemme, che lavorava a Gaza all’interno di uno dei centri sanitari che prima della guerra venivano gestiti in città.



Caritas stava cercando di assistere per quanto possibile i rifugiati di due chiese, quella ortodossa e quella cattolica. Com’è la situazione ora lì?

Quello che dico è quello che sappiamo finora, perché le informazioni che riusciamo ad avere ormai sono molto frammentate. Durante i tre giorni di tregua la Caritas è riuscita a entrare nel suo centro sanitario, che era stato chiuso a causa del conflitto: è stato danneggiato dai bombardamenti ma c’era ancora materiale sanitario che poteva essere utilizzato. È stato distribuito tra gli sfollati delle due chiese ma anche al Sud, all’interno di alcuni centri gestiti dalle Nazioni Unite. Alcuni operatori, anche loro sfollati nella zona, hanno cominciato a distribuire medicinali e materiale medico, oltre a cibo e materiale igienico che sono riusciti a procurarsi da alcuni fornitori locali. Un approvvigionamento con il contagocce. I protagonisti di tutte queste attività sono operatori che erano già a Gaza, che hanno cercato anche loro di ripararsi come gli altri, e che hanno sfruttato il temporaneo cessate il fuoco per aiutare gli altri. A Gaza non si può entrare, gli operatori che sono a Gerusalemme non possono andare lì.

Ora che i combattimenti sono ripresi la situazione, invece, com’è?

È degenerata: molte delle persone che stavano nelle due chiese sono andate via. A Nord ancora c’è qualcuno ma tantissimi hanno preferito spostarsi. Qualcuno potrebbe esserci ancora nelle due chiese, ma non riusciamo più ad avere notizia come prima, quelle che abbiano sono frammentarie. All’inizio della guerra c’era un migliaio di persone, ora saranno molte meno, ma è impossibile quantificarle, anche perché la situazione cambia di ora in ora. Chi può scappa, non è andato via solo chi non è riuscito a farlo: ogni giorno vengono segnalate delle zone considerate sicure dai bombardamenti, ma in una maniera molto approssimativa, comunicate attraverso un volantinaggio. Così le persone si spostano continuamente da un posto all’altro in cerca di un luogo sicuro. Anche per Caritas in queste condizioni è difficile operare. La guerra è ripresa più forte di prima. Caritas Gerusalemme cerca di mantenere per quanto possibile un contatto con lo staff, almeno per un supporto psicologico e morale. Al Sud finora si è tentato di continuare l’opera di distribuzione di quel poco che è rimasto. Anche dal punto di vista dell’accesso degli aiuti siamo a un livello di grandissima limitazione: dal valico di Rafah entrano pochissimi camion. Dopo la tregua la situazione è molto peggio di quella di prima.

Si riesce ancora a inviare soldi? Fino a poco fa alcuni servizi bancari funzionavano ancora, adesso si è bloccata anche questa possibilità?

Anche quella modalità di invio per il momento è interrotta. Si è riusciti a mandare fondi per finanziare qualche acquisto solo nei giorni di tregua. Adesso tutto è sospeso. Si riesce ad avere solo qualche comunicazione telefonica.

Si trova da mangiare?

C’è una situazione di tale insicurezza che anche da questo punto di vista ci sono grossi problemi. La situazione umanitaria è devastante. I bisogni materiali principali sono quelli di base: cibo, medicinali, acqua, servizi e materiale per l’igiene, assistenza medica. Difficile dare una priorità. Anche il rischio di epidemie resta molto elevato.

(Paolo Rossetti)

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