L’eliminazione di Hamas potrebbe non essere così veloce. E neanche del tutto sicura. Tra le ipotesi formulate per mettere fine alla guerra di Gaza ecco allora fare capolino la soluzione basca: Hamas che molla la sua anima militare e tiene in vita quella politica, con la prima spinta a deporre le armi in vista di un confronto che potrebbe portare all’istituzione dello Stato palestinese. L’unica incognita, e non di poco conto, è se Usa e soprattutto Israele siano disposti a percorrere la strada di una soluzione politica.



La ripresa di una trattativa per liberare gli ostaggi e per una nuova tregua potrebbe avere come orizzonte questo scenario, niente affatto facile, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato di Tg1 Esteri, ma comunque da tenere in considerazione, vista la difficoltà a trovare spiragli per una trattativa di pace.



Intanto, però, la guerra prosegue, a Gaza come in Cisgiordania, con il sostanziale avallo degli Usa che, al di là delle parole, assecondano le scelte di Israele. Resta il pericolo di un allargamento del conflitto. Ora il punto caldo, insieme al Libano, è diventato il Mar Rosso, dove le azioni degli Houthi, finanziati dall’Iran, contro le navi mercantili hanno di fatto causato un blocco navale in uno dei nodi cruciali per il commercio mondiale.

Ormai anche l’Idf e gli Usa lo ammettono: la guerra sarà lunga. Da Gaza, d’altra parte, sono arrivati ancora razzi verso Gerusalemme: la distruzione di Hamas tanto sbandierata non è così dietro l’angolo come sembra?



Fonti dell’esercito israeliano in forma anonima avevano detto ad alcuni media che sarebbero state necessarie ancora sei settimane per debellare Hamas dalla Striscia. In queste ore, invece, è un coro di affermazioni di fonte israeliana e americana secondo le quali la guerra potrebbe continuare a lungo. È evidente che c’è una contraddizione tra quello che alcuni militari e politici pensavano e la realtà sul campo. Da parte Usa si è chiesta una rapida chiusura della guerra perché altrimenti difficilmente gli americani potrebbero sostenere Israele, vista la sua crescente impopolarità: 120 nazioni dell’Onu hanno chiesto il cessate il fuoco in Assemblea generale, numero salito a 150 in una seconda votazione.

E sotto il profilo militare, in che misura Hamas sta accusando il colpo di un’offensiva così determinata?

La resistenza che Hamas, al di là del lancio dei razzi, ha opposto all’avanzata dei carri e dei militari è sempre più evidente: ha provocato ben oltre 100 vittime nell’esercito nemico con fonti israeliane che parlano di 1.500 feriti, un numero veramente imponente, finora mai uscito dalla rete della censura militare.

Vuol dire, quindi, che la prospettiva più credibile è ancora quella dei combattimenti?

Il conflitto potrà continuare per settimane o per qualche mese, ma a latere c’è un aumento esponenziale delle vittime civili: ormai siamo a poco meno di 19mila persone, alle quali vanno aggiunte quelle che sono rimaste sotto le macerie.

Si può mettere in dubbio, allora, che gli israeliani riescano a raggiungere l’obiettivo di distruggere Hamas?

Sì, per questo è lecito pensare che l’ipotesi di un cessate il fuoco, dettato anche dalla necessità di liberare le decine di prigionieri in mano ad Hamas a fronte dell’incapacità dell’esercito israeliano di risolvere la questione manu militari, possa essere l’anticamera di uno sbocco politico diverso dal semplice annientamento, esito più volte adombrato da fonti arabe e da fonti Anp.

E quali esiti potrebbe avere?

Potrebbe essere un percorso che porta all’inglobamento dell’ala politica di Hamas all’interno dell’Olp, lo storico organismo rappresentativo di tutte le fazioni palestinesi. Se fosse accettato anche da Usa e Israele, pur di uscire da questo vicolo cieco, la distruzione di Hamas si trasformerebbe in un suo cambiamento radicale, con l’ala politica che riprenderebbe la sua centralità rispetto a un’ala militare che negli ultimi dieci anni aveva assunto iniziative sempre più autonome, per certi aspetti controproducenti per la causa palestinese.

Ma l’ala militare che fine farebbe? Verrebbe neutralizzata sul campo o mandandola in esilio come qualcuno ha ipotizzato rifacendosi all’esempio del Libano nel 1982?

Il problema è capire se c’è l’interesse a una soluzione politica del conflitto per arrivare a uno Stato palestinese. Se tale interesse ci fosse, la soluzione potrebbe essere quella basca: alla fine di un percorso politico il movimento basco accettò di abbandonare le armi, i terroristi le deposero materialmente mostrando i loro arsenali a un gruppo di mediatori internazionali, tra i quali c’era l’attuale arcivescovo di Bologna cardinale Zuppi. Se non ci fosse la disponibilità a una soluzione del genere si andrebbe a uno scontro ulteriore.

L’uccisione per errore di tre ostaggi da parte dell’esercito israeliano ha suscitato un grande clamore nel Paese, con tanto di manifestazioni pubbliche e richiesta di riprendere al più presto gli sforzi per liberare altri prigionieri di Hamas. La gente in Israele come vede la guerra, pensa ancora a vendicare il 7 ottobre oppure l’atteggiamento è cambiato?

L’uccisione degli ostaggi per mano dei soldati israeliani, non durante un bombardamento, ma nel corso di un rastrellamento, denota dei limiti fortissimi nel comportamento dell’Idf a Gaza. Il giorno dopo l’uccisione dei tre il comando dell’esercito ha detto che i soldati che hanno compiuto questo atto non hanno rispettato le regole di ingaggio. Si vuole evitare che i militari dicano che per difendere se stessi hanno licenza di sparare senza alcun limite. In alcune scuole sono entrati e lo hanno fatto, causando vittime civili. Sullo sfondo c’è la possibile incriminazione dei comandanti militari israeliani per aver dato ai loro soldati regole di ingaggio molto ampie, che vanno oltre le leggi internazionali. Questo spiega perché c’è un crescente malumore nei confronti di un governo incapace di ottenere la liberazione degli ostaggi, indicata come obiettivo dell’operazione a Gaza insieme alla distruzione di Hamas. Un malcontento che comincia ad andare oltre la cosiddetta vendetta.

Tutto questo in un contesto in cui gli americani si dichiarano preoccupati per gli effetti della guerra sulla popolazione palestinese, ma sostanzialmente continuano ad avallare le scelte di Israele dal punto di vista operativo?

L’amministrazione Biden un giorno chiede il rispetto dei civili e a distanza di poche ore, così è successo, dà il via libera per la fornitura di munizioni senza alcun limite, anche bombe di grandissima potenza. C’è un fatto nuovo, però, che dovrebbe spingere la comunità occidentale a riconsiderare i termini di questa guerra: il blocco navale che di fatto si è creato al largo di Aden per opera dei guerriglieri che controllano le coste dello Yemen e che sono legati all’Iran. Il sequestro di navi mercantili e petroliere ha messo in crisi il traffico commerciale che attraverso il Mar Rosso e il canale di Suez rifornisce l’Europa di petrolio e altri beni. Un elemento che sul lungo periodo non è sostenibile dalla comunità internazionale.

Resta poi l’altro fronte del conflitto, meno considerato, ma altrettanto importante, se non di più, rispetto a Gaza: la Cisgiordania. Le azioni militari di Israele non si fermano e si segnalano altri morti. Cosa sta succedendo su questo fronte?

Queste azioni si dividono in due filoni: quello portato avanti dai coloni che aggrediscono gli abitanti dei villaggi palestinesi per spingerli ad andare verso la Giordania e quello dell’esercito, che ora, oltre a blindati e fanteria, utilizza anche i droni per colpire nelle città vecchie di Nablus, Jenin, Tulkarem. Una distinzione importante perché Usa e Ue hanno opposto sanzioni contro i capi dei coloni in Cisgiordania, ma nulla dicono rispetto alle iniziative dell’esercito. Una circostanza che desta grande preoccupazione nei Paesi arabi: se gli Usa non sono in grado di fermare questa deriva dell’attuale governo e del cosiddetto esercito della Cisgiordania, la possibilità di un esodo prima limitato e poi più grande dei palestinesi verso Amman è un’ipotesi tutt’altro che di lungo periodo. Se poi i palestinesi di Gaza dovessero sfondare verso Rafah si innescherebbe una situazione potenzialmente esplosiva che nessuna autorità palestinese potrebbe controllare.

C’è almeno la possibilità di ricominciare a trattare per una tregua?

Senza un cessate il fuoco la deriva è solo militare. Ora il direttore del Mossad sembra debba incontrare il primo ministro del Qatar per riprendere le trattative. Non sarà a Doha, ma in Europa. Nella notte in cui è finita la prima tregua, Netanyahu ha ordinato al capo del Mossad di lasciare la capitale qatariota e rientrare in Israele perché non c’era più nulla da trattare. Un fatto politico che pesa, uno schiaffo in faccia al Qatar, che ora ha fatto capire che devono essere gli israeliani a bussare alla porta. E visto che l’emiro è a Parigi l’incontro potrebbe tenersi lì.

(Paolo Rossetti)

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