Il mondo intero venerdì 3 novembre alle ore 15 ora di Beirut ha trattenuto il fiato aspettando con ansia prima e soppesando poi con cura il profluvio di parole di Hassan Nasrallah, guida dell’Hezbollah libanese, il partito sciita di Dio, filo-iraniano ed armato fino ai denti. Il perché di tanta attenzione da parte delle cancellerie di mezzo mondo è presto detto: la capacità militare di Hezbollah supera di gran lunga quella di Hamas. Il gruppo ha un arsenale di 150mila missili, carri armati e artiglieria missilistica: le armi a lungo raggio sono i pericolosi vettori iraniani Zelzal-2 e Fateh-110.
Questi sistemi utilizzano missili pesanti di grosso calibro, in grado di attaccare obiettivi a una distanza di 200-300 chilometri. Insomma il coinvolgimento di Hezbollah diventerebbe l’anticipo di una guerra regionale in grado di travolgere il destino dell’intera umanità.
Apparentemente e nel giudizio di molti, Nasrallah ha proferito un’invettiva nei confronti di Israele, rinunciando di fatto alla guerra totale nei confronti della “entità sionista”. In realtà il leader sciita ha individuato nel suo intervento gli Usa come principale destinatario ed obiettivo. Agli americani ha rivolto parole di fuoco che suonano pressapoco così: visto che vi ostinate a difendere Israele, comportatevi fino in fondo da padroni e fermate l’offensiva di Gaza, altrimenti non esiteremo ad aprire un secondo fronte.
Verosimilmente quindi abbiamo davanti a noi una decina di giorni che decideranno la direzione che prenderà il conflitto. Lo si capisce anche meglio leggendo i commenti della testata giornalistica più vicina a Nasrallah.
Su al-Akhbar, il quotidiano libanese filo-Hezbollah, è stato posto l’accento sull’indifferenza dei regimi arabi, che “guardano in silenzio il genocidio occidentale in atto a Gaza”, e sull’irrilevanza e l’impotenza dei manifestanti arabi, che con le proteste pacifiche non ottengono risultati. L’invito rivolto alle “élite patriottiche e nazionaliste” è quello di “iniziare a sviluppare dei programmi rivoluzionari” perché, “se le piazze vogliono giocare un ruolo nella formulazione delle politiche e nella definizione degli orientamenti, devono rompere con le forme di opposizione e i metodi di protesta tradizionali, soprattutto dopo che questi si sono dimostrati inutili”. Il dovere minimo delle piazze, conclude l’articolo, è “arrecare un danno agli interessi e se questo non è possibile devono quanto meno istillare lo sgomento nelle anime dei governanti e, attraverso di loro, nelle anime dei loro protettori occidentali criminali”.
Come spesso è accaduto insomma nella storia dei conflitti arabo-israeliani, dietro lo scontro tra musulmani ed ebrei si cela il delicato equilibrio dei rapporti di forza in Medio oriente, capace di coinvolgere il mondo intero se teniamo conto del fatto che più di una nazione latinoamericana – dipendente magari dal petrolio iraniano – si è affrettata a denunciare le relazioni diplomatiche con Israele. Ma dietro i discorsi fiammeggianti degli sciiti si celano gli interessi e le pulsioni di potere di Iran, Arabia Saudita e Turchia, desiderosi di ridefinire le proprie sfere di influenza, e la necessità di Paesi come il Qatar, vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, ma vaso pieno di gas e di dollari, di sopravvivere, anche attraverso il finanziamento del terrorismo.
Israele sta affrontando questa circostanza con il linguaggio che conosce: orgoglio e forza. Ma la leadership di Netanyahu appare a tutti gli effetti superata dai fatti, dalla loro enormità, da una logica della comunicazione globale che lo isola e che lo rende ogni giorno più fragile. Anche in questo caso mi sento di andare contro le interpretazioni più accreditate che hanno visto nel ricompattarsi della nazione israeliana la garanzia del futuro di Benjamin Mr. Security. Meglio sarebbe insomma per la sicurezza di Israele, ma soprattutto per la possibilità di intessere alleanze e giocare le carte di una narrazione alternativa alla violenza dei coloni, se il premier rassegnasse le dimissioni, consentendo che istituzioni in questo momento dotate di maggiore credibilità, come capo dello Stato e IDF, garantiscano il massimo dell’unità nazionale ed accompagnino il Paese alle elezioni.
Se è vero che la differenza tra Israele ed i suoi vicini sta nell’essere una democrazia questo è il momento di dimostrarlo. Lungi dall’essere una scelta di debolezza, potrebbe rappresentare il modo di offrire un nuovo interlocutore nella contesa per ricominciare a costruire un cammino verso la pace. Fuori dagli interessi regionali la guerra di tutti contro tutti che disegna oggi lo stato delle relazioni tra le grandi potenze rischia di fare da amplificatore alle tensioni mediorientali. Ci sono momenti della storia in cui è più conveniente fare la guerra che fare la pace. Ed oggi ci stiamo pericolosamente avvicinando a questo scenario.
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