I bombardamenti su Gaza non accennano a diminuire. Ora, però, si attende l’avvio dell’operazione di terra che dovrebbe essere la vera risposta di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre. Finora l’offensiva dell’esercito di Tel Aviv è solo stata annunciata, anche perché ci sono forti timori che un’azione devastante possa portare a un’escalation del conflitto le cui conseguenze non sono prevedibili.



Il risultato dell’azione militare in sé, osserva Marco Bertolini, generale già comandante del Coi e della Brigata Folgore in numerosi teatri operativi, tra cui Libano, Somalia, Kosovo e Afghanistan, non è in discussione: Israele può vantare un’imparagonabile superiorità sia dal punto di vista aereo che navale e anche un esercito più che addestrato ed equipaggiato per un intervento di terra. Il problema sono le conseguenze di una eventuale invasione di Gaza: i due milioni di profughi costretti a spostarsi e le reazioni dei Paesi confinanti e del mondo arabo. Quest’ultima è la sola arma, insieme agli ostaggi, rimasta ad Hamas, che ha i mezzi eventualmente solo per ritardare l’avanzata israeliana, certo non per fermarla.



Ecco come potrebbe svolgersi l’attacco israeliano schierando carri, soldati e aerei in loro supporto.

Generale, come potrebbe essere l’operazione di terra annunciata a Gaza dalle forze israeliane, quali sono le implicazioni possibili?

Potremmo paragonare Gaza per la sua forma a un tubetto di dentifricio che ha l’apertura a Sud con il valico di Rafah. Credo che nelle intenzioni israeliane, che spero non verranno attuate, si voglia “spremere il tubetto” da Nord per fare in modo che i palestinesi siano spinti, appunto, verso Rafah, facendoli uscire dalla Striscia. Per adesso si parla di spostarli a Sud dell’area che occupano, ma è una richiesta assurda perché non si possono trasferire oltre un milione di persone da Gaza Nord a Gaza Sud: materialmente non ci stanno.



È questa l’eventualità che fa paura agli egiziani?

Sì. L’arrivo di una tale massa di persone sarebbe difficile da gestire, terribile, così come è stato difficile per il Libano gestire centinaia di migliaia di palestinesi all’inizio della loro diaspora. Gli egiziani finora hanno tenuto chiusa la frontiera a Rafah, anche se Al Sisi dice che sono gli israeliani con i loro interventi nella zona a bloccare il deflusso.

Quali fasi potrebbe prevedere la rappresaglia israeliana?

Dopo il bombardamento che si è svolto finora, nel quale per ammissione stessa del capo di stato maggiore israeliano la distruzione ha avuto la priorità sulla precisione degli interventi, probabilmente il piano sarebbe di procedere con la “spremitura del tubetto”, mandando da Nord e anche da Est truppe di terra per spingere la gente a Sud.

Quali sono i rischi che si corrono?

Sarebbe un’operazione pericolosa per vari motivi: intanto perché dentro Gaza ci sono gli ostaggi, che al di là delle cifre che variano di giorno in giorno, sono comunque un numero consistente, 100 o 200 che siano. Nel momento in cui ci fossero dei combattimenti non si potrà sperare di liberarli, verrebbero coinvolti: non sono concentrati come a Entebbe nel terminal dell’aeroporto. La speranza di estrarli con un colpo di genio è abbastanza remota. Poi c’è il problema dei palestinesi: soprattutto dopo quello che è successo all’ospedale c’è grande attenzione a livello internazionale per la loro sorte. Anche se in Occidente siamo abbastanza allenati all’ipocrisia e a far finta di niente. Israele deve amministrare anche questo sentimento se vuole condurre la battaglia a Gaza.

Quali sono le forze in campo?

Israele è senza dubbio più forte, ha una potenza militare non paragonabile a quella di Hamas: ha il controllo assoluto del cielo e quello del mare, un aspetto importante visto che il bordo occidentale della Striscia dà sul Mediterraneo. Muoversi in un’area urbanizzata comunque può essere problematico, anche se non credo ci siano chances dei palestinesi di fermare il nemico.

Praticamente l’azione di terra cosa significa? Che devono avanzare metro per metro con i carri e i soldati per le strade?

Certo. Le unità corazzate di fanteria si muovono in simbiosi con i soldati a terra: i carri non si muovono mai da soli, sono sempre con la fanteria al seguito. Carri e fanti si supporterebbero l’un l’altro. Il tutto avviene con una copertura aerea. Fino ad ora gli aerei hanno messo a segno interventi fine a se stessi, di interdizione: sono andati e hanno bombardato. In quest’altra fase, quella dell’operazione di terra, il ruolo dell’aeronautica probabilmente cambierebbe, dedicandosi alle Clas (Close air support), azioni finalizzate a supportare le truppe a terra.

Come si procede, quindi, nella realtà?

Nel momento in cui partono le operazioni le forze terrestri hanno i Fac (Forward air controllers) che devono guidare l’intervento delle forze aeree con gli occhi di chi sta a terra, dicendo loro dove c’è bisogno di intervenire, con azioni su postazioni vicine: si tratta di un fuoco di aderenza. L’obiettivo è di consentire alle truppe terrestri di andare avanti superando gli ostacoli. Negli interventi che sono stati realizzati finora si sono utilizzate bombe più grosse, più avanti si utilizzeranno cannoni, razzi, armi meno potenti perché il fuoco andrà utilizzato a ridosso delle truppe amiche.

Quali potrebbero essere i tempi dell’operazione di terra?

Dipende anche da quella che sarà la resistenza e se quest’ultima disporrà di armi appropriate, ad esempio armi contraeree: ci vorrebbero i cosiddetti manpad, sistemi aerei spalleggiabili con i quali si possono colpire gli aerei a bassa quota. Se Hamas avesse armi controcarro potrebbe creare problemi agli israeliani, non certo con i razzi di cui sappiamo che dispongono, che sono privi di rilevanza operativa.

Ma avanzando in questo modo è possibile controllare gli effetti dell’operazione sui civili?

Secondo me no. Non è possibile effettuare un’azione selettiva e discriminante anche perché i palestinesi nella zona, concentrati lì nel tempo, sono tanti. Tutto questo riguarda Gaza. Poi vedremo cosa succederà nella Cisgiordania, perché anche lì credo che il discorso non sia chiuso. In questo caso la gente sarebbe spinta verso la Giordania, lì la situazione dovrebbe essere un po’ più complicata.

La situazione non può essere valutata solo dal punto di vista militare. Anzi, forse quello è l’unico punto in cui c’è chiarezza, vista la disparità delle forze in campo. Che cosa rischia di non funzionare allora?

Dal punto di vista militare non c’è storia: gli israeliani sono più forti e sono in grado di ottenere i risultati che si prefiggono perché hanno la supremazia aerea, navale e terrestre. La variabile è l’atteggiamento nei confronti di questa operazione da parte dei Paesi limitrofi, l’Egitto e la Giordania, che non a caso hanno declinato l’invito a incontrare il presidente Usa Biden nei giorni scorsi: un segnale fortissimo. Come reagirebbero di fronte a un esodo biblico di due milioni di persone che da Gaza, che pure era una specie di enorme campo profughi, venissero spinte nel deserto egiziano? E come reagirebbero gli altri Paesi dell’area, come l’Arabia Saudita, che doveva firmare un accordo con Israele, o la Siria che di fatto è già in guerra con Tel Aviv? Il vero problema non è militare: si sa già che vincono gli israeliani. Il problema saranno le reazioni.

Il ministro della Difesa Gallant ha annunciato come imminente la controffensiva, sarà effettivamente così?

Non lo so. In Ucraina hanno annunciato per mesi una controffensiva e abbiamo visto quando è partita come è andata a finire. Può darsi che si tratti di annunci a carattere propagandistico. Io credo che si deciderà alla luce di quello che sarà l’approccio degli Stati Uniti e dei ragionamenti degli strateghi israeliani sugli elementi evidenziati prima: perdite collaterali, ostaggi, perdite dell’esercito. Gli israeliani hanno trovato molto duro, nel 2006, l’impatto con Hezbollah, da cui sono stati fermati. Da allora hanno capito di dover convertire le loro capacità da quelle per una guerra a bassa intensità, contro il terrorismo e gli attentati, a quelle di un conflitto ad alta intensità. Un problema che riguarda tutti gli eserciti occidentali, anche gli americani. Ora come ora gli unici addestrati a una guerra ad alta intensità sono russi e ucraini.

Le informazioni dal fronte parlano di 100 obiettivi di Hamas messi nel mirino dagli israeliani. C’è la possibilità di azioni mirate contro l’organizzazione responsabile dell’attacco del 7 ottobre?

Gli israeliani hanno questa possibilità, hanno informazioni su quello che c’è a Gaza. Basta pensare all’uso della tecnologia, anche solo dei telefonini. Chi li utilizza può essere localizzato. Poi bisogna vedere se quello che viene detto ai media è vero o meno. Comunque, sì, gli israeliani hanno la capacità di colpire in maniera selettiva degli obiettivi.

Hamas, invece, ha qualche possibilità di difesa a Gaza?

No. Possono ritardare la disfatta. Possono contare solo sul supporto internazionale di altri Paesi che riescano a far desistere Israele o allarghino i confini del conflitto. Hamas con i suoi razzi Qassam non può pensare di fermare l’esercito israeliano.

(Paolo Rossetti)

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