Per comprendere la situazione attuale fra Israele e Palestina bisogna risalire anche al fallimento degli accordi di Oslo e alla loro vera natura.
Il 13 settembre 1993, sotto la presidenza di Bill Clinton, si svolse un evento storico nel giardino della Casa Bianca: la firma degli Accordi di Oslo tra Israele e l’OLP. Questi accordi, frutto di negoziati iniziati nel 1992, segnarono una svolta decisiva nella politica mediorientale. Prima di allora, Israele aveva sempre rifiutato negoziati diretti con l’OLP riguardo la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, prediligendo trattative con la Giordania. Il capovolgimento di questa politica si deve alla vittoria del Partito Laburista nelle elezioni del 1992 e alla sua volontà di intraprendere un percorso più orientato alla soluzione politica del conflitto.
Una seconda motivazione per questo cambiamento fu l’iniziativa di pace di Madrid del 1991, promossa dall’amministrazione di George Bush senior e James Baker. Questo sforzo mirava a una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese dopo la prima guerra del Golfo, con pressioni su Israele per fermare la costruzione di insediamenti e promuovere la soluzione a due Stati. Le relazioni tra Israele e gli Stati Uniti erano in quel periodo al minimo storico. Parallelamente, l’amministrazione USA iniziò un dialogo diretto con l’OLP. Tuttavia, sia Israele che Yasser Arafat erano insoddisfatti degli sviluppi a Madrid e decisero di avviare i loro negoziati.
I primi colloqui, facilitati dalla Fafo Foundation norvegese, culminarono nell’agosto 1993 e portarono alla Dichiarazione di Princìpi, firmata con grande cerimonia alla Casa Bianca. Questo evento fu celebrato come la fine del conflitto. Tuttavia, emersero due distorsioni principali: la percezione degli accordi come un vero processo di pacificazione e l’accusa ad Arafat di aver deliberatamente fatto fallire gli accordi, innescando la seconda Intifada.
La realtà degli Accordi di Oslo era più complicata. I termini negoziali erano irrealizzabili, e non era realistico aspettarsi che Arafat rispettasse impegni così gravosi. Le autorità palestinesi, inoltre, dovevano assumere un ruolo di sicurezza interno nei Territori Occupati e accettare l’interpretazione israeliana della soluzione finale.
Il vertice di Camp David nel 2000 pose Arafat di fronte a un accordo che limitava fortemente la sovranità di uno Stato palestinese proposto. Il processo di Oslo fallì sin dall’inizio, principalmente a causa di due questioni irrisolte: la partizione geografica e territoriale come unica base per la pace e l’esclusione dai negoziati del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. L’idea di partizione era una proposta sionista e israeliana che i palestinesi accettarono solo per mancanza di alternative. La spartizione come soluzione al conflitto palestinese risale al 1937, con il rapporto Peel della Commissione reale britannica e fu ripresa dalla risoluzione di partizione dell’ONU del 1947. L’UNSCOP, incaricata di trovare una soluzione, fu influenzata principalmente dalla leadership sionista. La divisione della Palestina, accettata da Egitto e Giordania in cambio di accordi con Israele, fu poi riaffermata negli sforzi di pace guidati dagli Stati Uniti dopo il 1967.
Il processo di Oslo, lungi dall’essere un tentativo di pace equo, fu più un compromesso accettato dai palestinesi sconfitti e colonizzati. La proposta di Oslo era essenzialmente una partizione sotto mentite spoglie, dove Israele determinava i termini del territorio da concedere. I palestinesi si trovarono così a cercare soluzioni contrarie ai propri interessi, compromettendo la loro stessa sopravvivenza.
Gli accordi di Oslo, pur integrando i concetti di ritiro territoriale e statualità, presto si rivelarono fallimentari. Con Oslo II del 1995, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza vennero divise in zone separate per ebrei e palestinesi, ulteriormente frammentate in cantoni. Il processo di pace si deteriorò rapidamente, con la conseguenza che non avrebbe portato al ritiro dell’esercito israeliano né alla formazione di uno Stato palestinese autonomo. Questa delusione contribuì allo scoppio della seconda Intifada nel 2000.
L’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 e la successiva elezione di Benjamin Netanyahu portarono a un arresto significativo del processo di pace. L’ostilità di Netanyahu agli Accordi, insieme alle accuse di “cattivo comportamento” palestinese, rallentarono notevolmente i negoziati. Anche il ritorno al potere del Partito Laburista nel 1999 non riuscì a salvare il processo. La fuga dei cosiddetti “Palestine Papers” ha offerto una visione più chiara della natura dei negoziati tra israeliani e palestinesi. Questi documenti hanno dimostrato che, nonostante il fallimento degli accordi di Oslo, la responsabilità non ricadeva unicamente sulla dirigenza palestinese, ma era il risultato di una complessa serie di eventi e decisioni politiche.
La questione dei rifugiati palestinesi è stata a lungo trascurata nei negoziati di pace. Con gli accordi di Oslo, questo problema cruciale fu relegato a una sottoclausola. Anche il CEIRPP delle Nazioni Unite non è riuscito a incidere significativamente sul processo di pace. La dirigenza palestinese, limitata dalle condizioni dell’accordo, poteva solo sperare di affrontare la questione dei rifugiati in una fase successiva dei negoziati. L’ultimo tentativo di salvare l’accordo di Oslo si svolse a Camp David nel 2000, ma anche qui la questione dei rifugiati rimase irrisolta. I negoziati finali furono dominati da israeliani e americani che cercavano di imporre i loro termini ai palestinesi, tra cui il rifiuto del diritto al ritorno. Le discussioni sui rifugiati palestinesi si rivelarono inutili, evidenziando la mancanza di una soluzione reale.
In conclusione, il processo di pace degli anni 90 non raggiunse i suoi obiettivi, trasformandosi in una riorganizzazione militare e in un consolidamento del controllo israeliano, peggiorando significativamente la situazione per i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
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