Netanyahu teme un mandato di arresto della Corte penale internazionale (CPI) e con lui il ministro della Difesa Yoav Gallant e il capo dell’IDF Herzi Halevi. E per non farsi bollare come criminale cerca di muovere mari e monti, compresi gli americani. Sarebbe un altro importante segnale che l’opinione pubblica internazionale, come dimostrano anche le proteste degli universitari USA, è sempre meno disposta ad accettare l’approccio di Israele alla guerra di Gaza.



Un elemento in più per chiedere, all’interno del Paese, le sue dimissioni, anche se poi fino a quando qualche forza politica non prenderà l’iniziativa di lasciare il gabinetto di guerra e il governo di unità nazionale il primo ministro rimarrà in sella in barba a tutti, procedendo all’operazione di terra a Rafah. I militari sono pronti da giorni ma non si è ancora visto un palestinese sfollato.



“Non sembra ci sia un piano di evacuazione credibile”, spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia e corrispondente di Avvenire, “si è parlato di 40mila tende per accoglierli, ma basterebbero per meno della metà di loro, visto che sono sicuramente ben oltre il milione. Poi potrebbe toccare al Libano“. Mentre si attende la risposta di Hamas alla controproposta israeliana per cessate il fuoco e ostaggi (secondo un funzionario palestinese anonimo non ci sarebbero grossi problemi ad accettare) si alza lo scontro nel Governo: Biden telefona a Netanyahu e ribadisce il no all’operazione a Rafah, ma i ministri di destra Smotrich e Ben Gvir chiedono di attaccare la città a Sud della Striscia pena lo scioglimento dell’esecutivo. Per Gantz, invece, gli ostaggi sono più importanti di Rafah.



Netanyahu rischia veramente l’incriminazione?

Sì, il punto è che bisognerà vedere quale sarà l’impatto negativo su Israele di un eventuale mandato di cattura, Tel Aviv non è firmataria dell’accordo di Roma. È da vedere quali saranno le conseguenze immediate.

Alcuni giornali parlano di pressioni continue di Netanyahu per evitare il mandato contro di lui. È così preoccupato?

Netanyahu è molto teso, ha contattato Biden ma anche le autorità di Austria, Repubblica Ceca e Olanda. La decisione dovrebbe essere imminente, si parla dei primi di maggio.

Sarebbe messo sullo stesso piano di Putin, verrebbe considerato criminale di guerra. Diventerebbe un problema accreditarsi a livello internazionale?

Sì, esatto. Senza dimenticare che c’è anche la Corte internazionale di giustizia che ha in sospeso la decisione sull’accusa di genocidio rivolta a Israele in relazione alle operazioni militari a Gaza.

Se venisse emesso un mandato di cattura internazionale per Netanyahu l’opposizione interna a Israele avrebbe un’altra freccia al suo arco contro il premier. Potrebbe bastare per farlo dimettere?

Dopo la diffusione di due video sugli ostaggi a Tel Aviv c’è stata una grossa manifestazione davanti al ministero della Difesa. Le pressioni stanno aumentando anche se rimango un po’ scettico di fronte a queste proteste: vanno avanti da mesi e non sono ancora riuscite a raggiungere il loro obiettivo. O la pressione arriva dall’interno del gabinetto di guerra, con le dimissioni di qualche membro, e allora ci potrebbero essere le dimissioni del governo, oppure andranno avanti così. Detto molto francamente, mi sembra che a Netanyahu non freghi niente delle pressioni esterne. Sta andando avanti a fare quello che pensa. Anzi, invece di occuparsi delle manifestazioni a casa sua sta chiedendo a Biden di reprimere quelle degli universitari americani, con la scusa dell’antisemitismo.

Un altro segno che la pressione internazionale comincia a dar fastidio al primo ministro israeliano?

Sì, ma il paradosso è che mentre Netanyahu si sente minacciato dal punto di vista della sua reputazione, soprattutto se ci fosse un mandato di cattura nei suoi confronti, invece che subire le pressioni è lui che le esercita.

Anche l’amministrazione Biden nella sostanza sembra subire le posizioni israeliane più che fare vere pressioni perché cambi l’approccio alla guerra. È così?

In occasione dell’approvazione del nuovo pacchetto di aiuti a Israele decisi dal Congresso, Bernie Sanders, senatore democratico contrario al provvedimento, ha detto confidenzialmente a Biden che l’invio delle armi poteva essere usato come strumento di pressione per ottenere l’annullamento delle operazioni a Rafah, invece è stato un regalo, senza chiedere niente in cambio. L’America cede sui punti su cui può premere.

Times of Israel parla di una spaccatura all’interno del Dipartimento di Stato USA: Anthony Blinken entro l’8 maggio deve relazionare al Congresso per spiegare se le armi statunitensi vengono usate da Israele rispettando il diritto internazionale umanitario, ma alcuni suoi funzionari pensano che Tel Aviv sia in difetto da questo punto di vista. Come si esprimerà?

Al Dipartimento di Stato USA si è dimessa una funzionaria di origini marocchine, Hala Rharrit, portavoce in lingua araba per il Medio Oriente e il Nord Africa: ha sostenuto di non riuscire più a difendere le posizioni della sua amministrazione. Il problema resta però la posizione del Dipartimento in quanto tale, che non è cambiata.

Intanto le operazioni militari a Gaza e in Cisgiordania proseguono senza sosta. Le vittime della guerra non fanno più notizia?

L’ultimo bilancio relativo alla Cisgiordania parla di 491 morti dal 7 ottobre e di 8.480 arrestati. Termina la Pasqua ebraica e magari arriveranno a un accordo sulla liberazione degli ostaggi. Intanto però gli israeliani hanno fatto un numero di prigionieri che è dieci volte tanto.

Il ministro degli Esteri Israel Katz ha detto che Israele sospenderà le operazioni a Rafah se gli ostaggi verranno liberati. Una situazione che potrebbe realizzarsi?

Egitto e Qatar stanno premendo su Hamas. Anche la Turchia. Il ruolo del Qatar, tuttavia, ora viene contestato dagli americani. Doha sarebbe seccata per alcune dichiarazioni relative al suo operato nell’ambito della mediazione sugli ostaggi. Per non parlare della polemica sul possibile trasferimento in un altro Paese dei capi di Hamas finora di stanza nella capitale qatariota. Ultimamente è l’Egitto che sta cercando di muovere le acque. Molti israeliani, in particolare i familiari degli ostaggi, dicono che Netanyahu non dà molti poteri ai suoi negoziatori e blocca ogni compromesso, non volendo rinunciare all’attacco a Rafah. Gli obiettivi di Israele sono due: liberare gli ostaggi e distruggere Hamas, ma per far questo devono attaccare Rafah. Prima di procedere vorrebbero liberare gli ostaggi in cambio della scarcerazione di detenuti palestinesi. Una condizione che non viene accettata da Hamas, che invece desidererebbe un cessate il fuoco definitivo, con il ritorno dei palestinesi a Nord di Gaza. Due discorsi paralleli che non si sa dove possano incontrarsi.

Israele sembra orientato a intervenire a Rafah. Ma un attacco lì potrebbe significare un contraccolpo molto negativo anche per la campagna elettorale di Biden. Stavolta se gli USA non si opponessero con decisione potrebbero pagarla cara?

Credo di sì. Il problema è che gli americani, nonostante tutte le proteste anche in patria, hanno il potere di muoversi, ma non lo esercitano. Il legame con gli israeliani resta molto stretto: basta pensare all’AIPAC, la lobby che agisce negli Stati Uniti, che dà soldi ai membri del Congresso per prendere posizione pro Israele. Bisogna tenere conto che molti funzionari dell’amministrazione sono di origine ebraica o hanno legami che portano in quella direzione: il segretario di Stato Anthony Blinken è ebreo, così come la segretaria del Tesoro Janet Yellen Blumenthal Akerlof. E sono solo due nomi di una lunga serie: tutti i posti chiave sono in mano ai sionisti. Oltre a Rafah gli israeliani attaccheranno anche in Libano, siamo a quasi 400 morti, 300 dei quali militari di Hezbollah, più militari che civili. È un fronte ignorato, lì il conflitto è solo rinviato, per non combattere su due fronti contemporaneamente. Andremo avanti per mesi.

Ci dobbiamo aspettare l’incriminazione di Netanyahu?

Probabilmente sì, anche se non so con quali conseguenze, voglio vedere l’effetto pratico. Fino a che si tratta di non effettuare viaggi all’estero non conta molto.

Anche Rafah vedrà l’attacco dell’IDF?

Il piano è pronto, aspettano solo l’ordine del governo. Il fatto è che non è ancora stato trasferito uno sfollato. Dicono che in una singola tenda, delle 40mila acquistate da Israele in Cina, ci stiano 10-12 persone, vuol dire che c’è posto per 500mila. E gli altri? I palestinesi da sistemare sono oltre un milione.

(Paolo Rossetti)

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