“Tutto quello che vediamo a Gaza e fuori Gaza è figlio dell’ennesima decisione americana di porre il veto a un cessate il fuoco”. Dopo il no degli USA in Consiglio di sicurezza dell’ONU alla risoluzione che prevedeva il cessate il fuoco nella Striscia, l’opzione militare, spiega da Amman Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e inviato di Tg1 Esteri, è ancora l’unica sul tavolo. Non per niente il giorno dopo la presa di posizione americana gli israeliani hanno attaccato a Damasco, continuando le loro incursioni in Cisgiordania e nel Sud del Libano e riprendendo a occuparsi anche del Nord di Gaza, evidentemente non bonificata da Hamas.
Ci sono elementi nuovi, che destano grande preoccupazione: il World Food Programme, a guida USA, non consegnerà più gli aiuti agli sfollati per paura degli assalti ai camion da parte della gente affamata. L’ennesima scelta che fa perdere credibilità a Washington, che sta cercando di recuperarla con i Paesi arabi promettendo ingenti aiuti finanziari dal punto di vista umanitario anche per Paesi come Egitto e Giordania, destinati a fare da valvola di sfogo per gli sfollati. Dal Cairo rimbalza anche un’altra ipotesi: una parte dei profughi andrebbe in Egitto, ma con la promessa che poi siano trasferiti nelle nazioni UE.
L’IDF è tornata a bersagliare il Nord di Gaza e ci sono state nuove incursioni in Siria, con tre morti a Damasco. L’operazione militare rimane, di fatto, l’unica opzione presa in considerazione da Israele?
Dentro Gaza la situazione era tutt’altro che militarmente definita sia nel Nord che nel Centro, prova ne sono i bombardamenti aerei, anche devastanti, mai cessati e ripresi con forza. E gli attacchi nella periferia di Damasco ripropongono il fronte che per Netanyahu è sempre aperto: il contrasto alle milizie sostenute dall’Iran, che vengono colpite non per quello che hanno fatto, ma in vista di un eventuale allargamento del conflitto. Per Netanyahu e i suoi generali, impedire il loro rafforzamento serve ad evitare guai maggiori se dovesse scoppiare un conflitto a livello regionale.
Le forze armate israeliane hanno attaccato in Cisgiordania, causando 3 morti e arrestando 14 persone nei pressi di Jenin. In Libano, gli interventi si sono intensificati. Anche questi sono interventi preventivi per fiaccare quelli che potrebbero essere i nemici di una guerra allargata?
Sicuramente c’è l’intento di prevenire attacchi, anche in Cisgiordania. Ma bisogna considerare due elementi. Quello che sta accadendo è figlio della decisione USA di porre per la terza volta il veto alla richiesta dell’Algeria in sede ONU per un cessate il fuoco. Gli americani avevano fatto circolare una bozza in cui si chiedeva un temporaneo cessate il fuoco finalizzato alla liberazione degli ostaggi, per impedire l’espandersi del conflitto alla popolazione civile ammassata intorno a Rafah. Avere impedito la risoluzione algerina ha annullato le possibilità di approvazione anche della bozza americana, che nulla diceva su cosa sarebbe accaduto una volta liberati gli ostaggi da parte di Hamas: tutti gli indizi fanno pensare a un nuovo attacco israeliano tra Gaza e l’Egitto, senza che gli USA possano fermarlo. Uno smacco diplomatico per gli Stati Uniti, che hanno perso credibilità in varie parti del mondo. Riguardo alla Cisgiordania, tutto si lega anche a un tentativo di controllare in modo militare i palestinesi di fede musulmana nell’imminenza del Ramadan. Le restrizioni ai palestinesi nell’accesso alla Spianata delle Moschee rappresentano un cerino acceso che può far esplodere anche Gerusalemme fra pochi giorni.
Dopo la visita di una delegazione guidata da Ismail Haniyeh al Cairo e una presunta riduzione delle pretese da parte di Hamas si parla dell’arrivo di una delegazione israeliana in Egitto. C’è la possibilità che si torni a trattare sul serio?
Le trattative, come in una partita a poker, procedono guardando le carte coperte e quelle scoperte. Gli USA hanno calato una carta (il veto) che va contro Hamas, i palestinesi, l’opinione pubblica e le leadership di diversi Paesi. Non per niente ci sono state la pesante presa di posizione del presidente brasiliano Lula e quella del principe ereditario William che ha detto senza mezzi termini che a Gaza ci sono troppi morti (hanno superato i 29mila con 70mila feriti) e che per questo occorre un cessate il fuoco. Un messaggio dall’alleato storico degli USA, la Gran Bretagna.
Quali altre carte possono giocare gli americani?
Rimangono alcune carte coperte. La possibilità di nuovi incontri al Cairo per convincere che le intenzioni americane siano concrete e che alla liberazione degli ostaggi e alla fine della tregua non seguirebbe l’invasione completa di Rafah da parte di Israele. In realtà finora gli USA non hanno detto nulla di concreto, anche se va considerato un elemento che sta sullo sfondo. I sondaggi preelettorali di Biden sono in picchiata, si fa avanti l’idea che non sia in grado né di condurre la campagna elettorale né di vincerla, considerata l’ostilità della comunità arabo-americana. Tutto questo potrebbe pesare sulle trattative al Cairo se mai entreranno nel vivo.
Gli americani potrebbero dare un segnale diverso da quelli dati finora?
Sì. Ma avevano la possibilità di farlo all’ONU e non lo hanno fatto. Vuol dire che una parte dell’amministrazione americana è convinta che la guerra possa finire prima del Ramadan, come ha detto Netanyahu. Se dovesse avvenire, si concluderebbe con un nuovo bagno di sangue: Biden politicamente ne uscirebbe disfatto.
Si parla meno della situazione degli sfollati, che pure peggiora di giorno in giorno, con gente stremata e ai limiti della sopravvivenza. Su questo fronte, cosa sta succedendo?
Il punto politico e militare ruota intorno al milione e mezzo di persone che si trovano a Rafah, mentre per le 750mila tra Nord e Centro entra in gioco un altro fattore. Il World Food Programme ha sospeso l’invio e la distribuzione degli aiuti alimentari perché non c’è sicurezza per i suoi operatori, visti gli assalti ai camion che portavano farina e altro. Una decisione anche politica: da aprile 2023 il WFP è diretto da Cindy McCain, nominata da Biden e considerata molto vicina allo staff del presidente. USA e Israele avevano delegittimato l’UNWRA dicendo che il WFP poteva distribuire gli aiuti. Se il risultato è la cessazione degli aiuti si capisce che è una decisione politica che va incontro alle richieste israeliane.
Quali richieste?
Che gli aiuti non siano uno strumento per mantenere all’interno di Gaza la popolazione. Una decisione di cui non si comprende ancora fino in fondo la gravità. È il fatto più importante delle ultime ore.
Questa scelta e il veto all’ONU confermano, se mai ce ne fosse bisogno, che gli USA assecondano in tutto e per tutto Israele?
Esattamente. Gli USA, attraverso la promessa di grandi finanziamenti per gli aiuti, cercano di convincere gli Stati arabi da una parte che bisogna dare agli israeliani la possibilità di chiudere militarmente la guerra a Gaza, e dall’altra che a Egitto e Giordania in particolare non mancheranno i fondi per far fronte alla crisi umanitaria.
La posizione USA, quindi, è ancora quella del primo viaggio di Blinken dopo il 7 ottobre, quando è andato a chiedere ai Paesi dell’area di tenersi i palestinesi che uscivano da Gaza?
Siamo su quella linea anche se non c’è, né da parte dell’Egitto, né tanto meno dalla Giordania, la disponibilità a ospitare i profughi. Il Cairo ha fatto sapere informalmente che sarebbe anche disposto ad accogliere temporaneamente alcune centinaia di migliaia di persone nel Sinai, ma con la richiesta alla UE di farsi carico poi della maggioranza di queste persone trasferendole nei Paesi europei. Questo pone l’Europa di fronte a scelte che saranno da prendere: si accetta questa prospettiva? Se la si rifiuta, il valico di Rafah rimarrà chiuso. I soldi americani e anche quelli europei non bastano a placare le ansie né della Giordania né dell’Egitto.
(Paolo Rossetti)
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