Le operazioni militari a Gaza sono in corso. Anzi, sono nella fase cruciale, con l’accerchiamento di Gaza City in vista delle operazioni annunciate da Israele per bonificare l’area dalla presenza di Hamas. Per ora, insomma, la fine dei combattimenti è ancora lontana. Ma per risolvere la questione palestinese c’è bisogno anche di futuro, di un obiettivo da indicare per uscire da una contrapposizione che rischia di portare ciclicamente, al di là della pur grave situazione contingente, nuove tensioni e conflitti. Il piano che potrebbe portare a una pacificazione del Medio Oriente potrebbe essere quello che punta alla presenza di due Stati, uno israeliano e uno palestinese.
Un’ipotesi sulla quale è tornato anche papa Francesco. Un risultato niente affatto facile da raggiungere, soprattutto se si tiene conto degli attuali rapporti tra Israele e Palestina. Ma che vede il suo più grosso ostacolo nella presenza dei coloni israeliani che in Cisgiordania hanno talmente spezzettato il territorio, occupando nella West Bank spazi che non spettano loro, da rendere quasi impraticabile, su queste basi, la realizzazione di due Stati distinti.
Lo spiega Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale nell’Università La Sapienza di Roma, che esorta la comunità internazionale a farsi carico del problema, senza limitarsi a sfruttare la situazione per ottenere vantaggi geopolitici. Altrimenti la strada potrebbe essere ancora quella di una guerra come quella di questi giorni, in cui entrambe la parti, con l’attacco del 7 ottobre Hamas e con attacchi indiscriminati come quello nel campo profughi di Jabalia Israele, si macchiano di azioni che possono rientrare nei crimini di guerra.
Qual è lo status attuale di territori come la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, come si è arrivati a definirli? Che tipo di riconoscimento hanno a livello internazionale?
La Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono considerate dalle Nazioni Unite come territori occupati da Israele. Ambedue hanno una sorta di autonomia amministrativa: in Cisgiordania il governo territoriale è assicurato dall’Autorità Nazionale Palestinese mentre nella Striscia di Gaza, Hamas ha rovesciato l’ANP e governa per proprio conto. L’autonomia di questi territori è il frutto degli accordi di Camp David del 1978 e degli Accordi di Oslo del 1993. Tuttavia, si tratta di una autonomia limitata, soprattutto per quanto concerne la Striscia di Gaza, soggetta a un controllo strettissimo da parte di Israele, il quale, pur non occupando militarmente la Striscia, condiziona la vita economica e sociale degli abitanti, alla stregua di un territorio occupato.
L’occupazione di territori da parte dei coloni nella West Bank come va considerata in questo contesto dal punto di vista del diritto?
La strisciante occupazione dei coloni israeliani nella West Bank è contraria non solo al diritto internazionale generale, che vieta alla potenza occupante di alterare la composizione demografica del territorio occupato. Essa è anche contraria agli accordi conclusi da Israele con l’ANP nonché alle risoluzioni delle Nazioni Unite. Da un punto di vista generale, la politica di colonizzazione di territori occupati segna il tramonto di ogni prospettiva di pace.
Il Papa, e non solo lui, ha riproposto l’idea dei due Stati come soluzione alla questione palestinese. Come potrebbe strutturarsi e convivere con Israele uno Stato della Palestina? Alla luce della situazione attuale, politica e militare quali sono gli ostacoli alla realizzazione di un piano del genere e come potrebbe essere applicato?
La politica di Israele, il quale non solo ha adottato una politica di occupazione dei territori palestinesi, ma ha anche annesso la parte est di Gerusalemme facendone la propria capitale, è il principale ostacolo a tale progetto. Di fatto, gli insediamenti dei coloni hanno spezzettato il territorio della West Bank in modo tale da rendere irrealizzabile tale progetto. Oltre tutto, gli insediamenti dei coloni sono fonte di incidenti anche gravi, che inaspriscono i rapporti con i palestinesi e creano condizioni per un conflitto perenne. Questa situazione non solo non va nella direzione di una soluzione, ma anzi moltiplica la tensione e destabilizza l’intera area. Se pur fosse vero quel che dice Israele, il quale lamenta l’assenza di una dirigenza palestinese affidabile, ciò non giustificherebbe questa politica, la quale sembra proprio mirare a porre un macigno sulla strada della pace.
Nel campo palestinese come in quello israeliano sembrano prevalere due visioni estremiste: quella di Hamas, che vuole cancellare Israele, e quella della destra religiosa israeliana che specularmente non vuole riconoscere diritti ai palestinesi. Che ruolo può avere la comunità internazionale nell’avviare un processo di pacificazione superando questa contrapposizione?
La comunità internazionale dovrebbe essere unanime nel condannare ambedue questi opposti estremismi, che si avvitano in una spirale senza fine di violenza. Da un lato, il fondamentalismo islamico si nutre delle politiche aggressive di Israele nei territori occupati; d’altro lato, l’estremismo dei fondamentalisti è un potente argomento per il governo israeliano per rifiutare di aprire un negoziato. In questo momento, più che mai, occorre che la comunità internazionale ribadisca e affermi il rispetto per il diritto internazionale, l’unica fonte di legittimazione che deve ispirare le condotte di tutte le parti. Giocare una partita geopolitica, come si sta facendo da tutte le parti, non è solo cinismo, ma assenza di saggezza e lungimiranza politica.
Ci sono altre strade che possono essere percorse per pacificare l’area, un’alternativa alla soluzione dei due Stati?
Credo che, in questo momento storico, non ci siano altre strade. Troppi lutti da ambedue le parti hanno creato un odio inestinguibile. D’altronde, le altre strade sarebbero peggio della situazione attuale. Se si verificasse il sogno del Grande Israele, questo avrebbe una composizione demografica a maggioranza palestinese. Di conseguenza, Israele avrebbe l’alternativa di consentire a questa maggioranza di assumere il governo, ovvero di praticare politiche di apartheid. Credo che qualsiasi persona raziocinante debba rigettare ambedue queste soluzioni.
Israele viene accusato di violenza eccessiva nella sua risposta all’attacco del 7 ottobre. Secondo l’Alto commissario dell’ONU per i diritti umani l’attacco sul campo profughi di Jabalia potrebbe essere considerato un crimine di guerra. Qual è il limite che non si può oltrepassare? Un’accusa (quella di crimini di guerra) che può essere indirizzata anche ad Hamas?
Hamas ritiene di essere legittimata a usare la forza per la autodeterminazione del popolo palestinese. Ma, anche a seguire questa tesi, la forza va utilizzata contro l’esercito occupante, non contro civili israeliani. L’attacco del 7 ottobre è stato atroce e va senz’altro qualificato come un crimine internazionale gravissimo. Ma la reazione israeliana è stata a sua volta atroce. Non si è trattato di legittima difesa, la quale, per essere tale, deve dirigersi verso l’attaccante. Di converso, la reazione israeliana si è anche rivolta contro la popolazione civile, privata dei mezzi essenziali di sostentamento, bersagliata da incessanti bombardamenti su insediamenti abitati, forzata a evacuare amplissime parti del territorio. Così facendo, Israele sembra aver dichiarato guerra a un popolo, seminando odio in risposta all’odio di Hamas.
(Paolo Rossetti)
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