Israele conquista il parlamento di Gaza e marca il territorio. La superficie della Striscia è ormai in suo possesso, ma deve ancora conquistare la parte sotterranea, quella dei tunnel e dei cunicoli dove si nasconde Hamas. Vero è che l’organizzazione terroristica palestinese autrice dell’attacco del 7 ottobre rimanendo nelle sue basi underground non ha molte possibilità di sopravvivenza, ma per l’IDF c’è sicuramente ancora del lavoro da fare prima di bonificare interamente l’area da Hamas.



Cosa succederà dopo le operazioni militari, poi, è un mistero. Netanyahu non lo sa ancora: nel suo governo ci sono posizioni diverse, a partire dalla destra messianica di Smotrich e Ben-Gvir che vorrebbe occupare il territorio per ricostruire il grande Israele biblico. Gli europei, come gli americani, spingono per affidare Gaza all’ANP, che però così come è adesso probabilmente non sarebbe accettata dagli stessi palestinesi.



I Paesi arabi, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione nell’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi, non hanno una posizione unica, soprattutto non sono in grado di avviare il necessario dialogo con Israele per immaginare il futuro dei palestinesi. Insomma l’incertezza regna sovrana e nel puzzle della Palestina sono tanti i pezzi che devono andare al loro posto. A meno che la situazione non venga scompigliata ancora di più da un improvviso allargamento del conflitto: in Siria i russi attaccano i ribelli nella zona di Idlib, gli israeliani bombardano gli aeroporti e anche gli americani si fanno sentire, mentre in Libano continuano gli scontri con Hezbollah: le situazioni di tensione sono così tante che il conflitto potrebbe diventare regionale da un momento all’altro.



Professore, gli israeliani hanno diffuso l’immagine dei loro soldati nel parlamento di Gaza, simbolo di un riconquistato controllo del territorio di Hamas. Quanto manca ancora per mettere in sicurezza l’area?

Intanto Israele vuole dimostrare che ha conquistato Gaza, anche se si tratta della parte superiore, mentre invece nei tunnel gli uomini di Hamas dovrebbero avere ancora una certa forza e capacità di resistenza, votati come sono al martirio. È chiaro che per loro perdere la parte in superficie significa non poter più comunicare con l’esterno. Israele, comunque, occupa gli spazi rappresentativi del potere che Hamas ha esercitato in questi anni. Una rappresentazione simbolica che mostra una certa esibizione della forza, in una guerra che, come tutti i conflitti, si gioca anche a livello mediatico. Un messaggio che i palestinesi e gli sponsor di Hamas devono capire.

Si può comprendere qualcosa di più sulle vere intenzioni di Israele per Gaza: vuole rimanerci e occuparla, almeno in parte?

Credo che ci sia un po’ di incertezza da parte di Netanyahu, lui stesso non sa cosa fare. Il suo governo attuale, con l’entrata di Gantz, candidato degli americani alla sua successione, ha posizioni abbastanza divergenti sul tema: da un lato c’è la destra messianica, che ipotizza addirittura un ritorno a Gaza perché nella sua concezione del grande Israele biblico quel pezzo di Sinai faceva parte del “regno perduto”, dall’altra c’è il premier che non vuole cedere il controllo e la sicurezza della Striscia ad altri: teme che Hamas si ricostituisca.

Al di là dei proclami israeliani sulla sua eliminazione, Hamas potrebbe rappresentare ancora un pericolo nel dopoguerra?

Ne uscirà distrutta nei suoi quadri di prima fila o intermedi, ma tutta la struttura politica ce l’ha all’estero, così come la cassaforte. Può essere debellata a Gaza ma non nel campo palestinese. Anzi, è possibile che riemerga in Cisgiordania, dove l’ANP è assolutamente delegittimata in questa fase storica. Netanyahu cercherà di portare verso una soluzione a seconda anche della capacità degli USA, unico Paese che può avere un certo margine di influenza nell’area, di incidere sul futuro della Striscia. Se gli Stati Uniti non volessero esercitare la loro influenza, Netanyahu avrebbe un margine di manovra maggiore. Per ora non sembra esserci una soluzione diversa da quella cristallizzata nella formula “Gaza senza Hamas e Palestina senza Stato”. Ma è solo una formula che non fa altro che rinviare nel tempo le contraddizioni della situazione.

Secondo il Washington Post Hamas fin dall’inizio avrebbe voluto far scoppiare un conflitto regionale. Se guardiamo alle cronache però vediamo continui scontri di Israele con Hezbollah nel Sud del Libano, incursioni sempre israeliane in Siria e nello stesso Paese attacchi dei russi ai ribelli nella zona di Idlib, mentre gli americani rispondono agli attacchi alle loro basi in Iraq. La verità è che il conflitto regionale è già una realtà?

Sì, ma paradossalmente è un conflitto ancora controllato: gli attori che lo promuovono non sono interessati a farlo salire oltre un certo livello. Se non fosse così avremmo un coinvolgimento maggiore degli sponsor e anche una intensità diversa degli scontri: per il tipo di armi che si usano e il tipo di operazioni che si svolgono si tratta di un conflitto legato a delle limitazioni. Come ha detto Nasrallah (il capo di Hezbollah, nda) si tratta di una guerra di pressione, un tentativo di alleggerimento per tenere Israele allertato. Il conflitto non è ancora esploso: la guerra grossa, come la chiamano nell’area, non c’è.

C’è però la preoccupazione del re giordano Abdallah che teme un allargamento delle operazioni militari se Israele continuerà con l’occupazione di Gaza e con le violazioni in Cisgiordania e a Gerusalemme. Quanto può incidere questo comportamento israeliano?

Se ci fosse una forma di insorgenza anche in Cisgiordania diventerebbe difficile circoscrivere il conflitto, e l’atteggiamento dei coloni protetti dalla destra messianica produce delle tensioni. Questo fronte il re giordano lo conosce bene perché ha la maggioranza della popolazione che è palestinese. Nessuno dei Paesi confinanti vuole essere coinvolto nel conflitto, ma l’orientamento è così palesemente polarizzato nelle opinioni pubbliche che questi stati cominciano a temere che ci possano essere delle conseguenze.

Italia, Francia e Germania hanno ribadito quella che è sostanzialmente la posizione europea: sostituire Hamas con l’Anp nel governo di Gaza. Si tratta però di un’autorità ampiamente screditata in campo palestinese, con accuse di corruzione, affidarsi a lei può essere una soluzione praticabile?

Il problema vero è che l’ANP non ha un ricambio. Chi potrebbe garantirlo è nelle carceri, è la seconda Fatah. La leadership potrebbe essere interpretata da Marwan Barghouti o dalle persone che si riconoscono in lui. Certo, pensare che questa ANP, così com’è oggi, possa gestire Gaza, è complicato: per questo anche gli stati arabi non sono così convinti di questa soluzione. Del resto l’alternativa è difficile da trovare. O c’è una forza internazionale oppure è difficile pensare che Abu Mazen possa tornare a Gaza scortato dagli israeliani.

Perché allora anche l’Europa insiste tanto su questa soluzione?

Perché non ce n’è un’altra. C’è solo la soluzione dei due stati. Ma occorre una leadership dell’ANP un po’ più spendibile e un mutamento nel panorama politico israeliano. Oggi senza le elezioni non si vede niente all’orizzonte, forse dopo le votazioni potrebbe cambiare qualcosa.

I palestinesi comunque potrebbero essere nella condizione di vedersi imposta una leadership che loro non vogliono?

Questo è il problema. Ma dobbiamo vederlo sul campo.

Sul fronte dei Paesi arabi e islamici c’è qualcuno che potrebbe prendere l’iniziativa per riuscire almeno a calmare la situazione e a indicare una prospettiva?

Non c’è un Paese che possa diventare protagonista: la Lega araba deve mettersi d’accordo con gli Stati Uniti. L’Egitto potrebbe garantire un po’ di sicurezza, i Paesi del Golfo provvedere alla ricostruzione. Tutto passa da un sistema di alleanze benedette dagli Usa di Paesi che non possono non avere un dialogo con Israele. Nessuno è in grado di dire agli israeliani di farsi più in là.

(Paolo Rossetti)

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