Gli americani chiedono la tregua ma a Israele non conviene. Fermarsi per tre giorni come dice Biden significherebbe concedere un vantaggio troppo grande ad Hamas, che in cambio di una pausa di tre giorni nei combattimenti libererebbe 12 ostaggi, mentre l’IDF è decisa a portare a termine le sue operazioni prima possibile. Netanyahu, insomma, sembra fare orecchie da mercante alle dichiarazioni Usa che paiono fatte più per l’opinione pubblica e per le tv che per un reale tentativo di pressione sul governo israeliano.



Proprio gli Stati Uniti, d’altra parte, hanno un programma di aiuti miliardari a Israele e l’attuale amministrazione democratica ha appena chiesto al Congresso un pacchetto da 14 miliardi di dollari di armamenti. Lo scenario che si prospetta, quindi, è ancora di guerra e bombardamenti. E anche la soluzione per risolvere la questione palestinese una volta messa la parola fine al conflitto non è chiara. Ci sono delle proposte sul tavolo, ma, come spiega Fabio Mini, generale già capo di stato maggiore della Nato per il Sud Europa e comandante delle operazioni di pace Nato in Kosovo, fino a che Israele non cambierà registro e non smetterà di additare come terrorista chiunque non sta dalla sua parte, sarà ben difficile riuscire a far coesistere Israele e Palestina. Il contesto di questa come delle crisi mediorientali precedenti è quello di una guerra globale dalla quale anche Russia e Cina vogliono trarre profitto: Mosca sperando in una diminuzione degli aiuti all’Ucraina da parte americana, Pechino sfruttando il pugno duro con Hamas come pretesto per sistemare alcune realtà ribelli interne come gli uiguri.



Generale, Biden chiede una tregua di tre giorni ma Netanyahu non sembra proprio disposto a concederla per non dare respiro ad Hamas. Usa e Israele sono più lontani o è solamente un gioco delle parti?

La proposta di Biden, che è anche di alcuni Paesi arabi, è quella della pausa, ma Israele la ritiene inaccettabile: fermarsi è già una mezza vittoria per Hamas. Per come gli israeliani hanno impostato questa campagna, cioè come una punizione collettiva, che è un crimine internazionale, le operazioni devono proseguire, perché hanno sempre paura che intervenga qualcun altro, magari le stesse Nazioni Unite, e li metta in difficoltà. Devono fare quello che hanno pianificato, cioè la distruzione di Gaza.



La divergenza di vedute riguarda anche il futuro di Gaza e la volontà di Israele di garantire direttamente la sicurezza della Striscia nel dopoguerra. Resteranno su posizioni diverse anche riguardo all’occupazione del territorio?

Qui si apre il capitolo dell’occupazione. Secondo il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu Israele è un Paese occupante nei confronti di Gaza. Da regolamenti dell’Aja, che fanno parte della convenzione di Ginevra, il Paese occupante ha degli obblighi verso la popolazione civile, deve salvaguardarla e sostenerla, deve darle da mangiare, curarla, così come la popolazione civile non deve usare la violenza. Se Israele considera Hamas come un’organizzazione terroristica che non ha niente a che vedere con la Palestina, allora ha sbagliato a iniziare una campagna militare di punizione, se invece la considera tutt’uno con i palestinesi deve prendersi la responsabilità di ammazzare tutti quelli che stanno nel territorio occupato.

Se permane questo atteggiamento, questo modo di considerare Hamas, quali rischi si corrono?

Netanyahu dice che sarà una guerra lunga, ma lunga sarà la guerra che verrà dopo Gaza, quella che coinvolgerà altri Stati. Intanto l’Iran, ma anche il Libano, la Siria. Il timore più forte è di uno scontro con l’Iran, che si porterebbe dietro l’Iraq e con loro la Russia.

Non è che gli americani e gli israeliani stanno facendo finta di essere in disaccordo, mentre in realtà recitano una parte lasciando che l’intervento militare faccia il suo corso?

Non è una questione solo di ipocrisia, ma anche di politica comune: gli Stati Uniti hanno un programma di 43 miliardi di dollari destinati a Israele per spese militari e Biden ha chiesto al Congresso altri 14 miliardi per munizioni e armamenti. Da una parte pensa alla pausa per motivi umanitari e dall’altra parte la vuole perché così le forniture militari arrivano meglio. Gli Usa hanno un profondo vincolo di sostegno con Israele: la paura che ha Biden è che questo elemento concorra a rovinargli le elezioni, che venga considerato, insomma, sostegno a uno stato terrorista. Le dichiarazioni americane sembrano fatte per l’opinione pubblica e per le tv, ma poi gli Usa lasciano fare a Israele quello che vuole. Sotto sotto i soldi e le armi continuano ad affluire. È arrivata una gran quantità di armi (ci sono stati almeno due o tre cargo americani passati dalla base di Ramstein pieni di munizioni e di missili) che serve per una guerra immediata. Contro chi? Potrebbero essere rifornimenti per Gaza, ma per fare cosa? Per ammazzare un’altro milione di persone?

L’esercito, intanto, continua le sue operazioni, continuando a braccare i capi di Hamas, con effetti evidenti su città e popolazione. Un intervento che in Israele nessuno mette in dubbio?

Non mi meraviglia molto che la parte militare di Israele si sia completamente votata alla tecnica per la migliore e più profonda distruzione e annichilimento del cosiddetto avversario. Non mi stupisce molto perché è dal 2008 che vanno avanti con questa teoria che non esistono innocenti, neanche i bambini, tra coloro che sono contro Israele. I militari non sono automi, sono uomini, come mai gestiscono un esercito così potente e non si chiedono se esiste un limite alla distruzione?

Probabile, quindi che Israele dica di no alla richiesta di tregua continuando le operazioni militari a Gaza?

Faranno così. C’è un fatto che noi non abbiamo considerato: la stessa opinione pubblica interna di Israele ne ha abbastanza e comincia a pensare che questa guerra senza limiti non faccia bene allo Stato israeliano. Sarà la stessa che prima o poi farà fuori Netanyahu e anche quelli che hanno contribuito a questa mattanza.

Ci sono delle dichiarazioni di Gantz, che ora fa parte del Governo, che sono di tono diverso rispetto a quelle di Netanyahu: ha detto, ad esempio, che Gaza non sarà cancellata. Esprime una posizione che potrebbe cambiare il corso del conflitto?

Gantz sa che per il diritto è una barzelletta dire “Occupiamo Gaza e quindi assumiamo il controllo della sicurezza del territorio”: Netanyahu da occupante sta violando il diritto internazionale relativo alla protezione della Striscia. E le stesse voci che riconoscono all’Ucraina, in quanto Paese aggredito, il diritto a difendersi sembra che dicano che Gaza diritto non ce l’abbia.

I bombardamenti di Israele nella zona occupata da Hezbollah, le azioni contro le basi militari Usa in Iraq fanno pensare che l’escalation sia un pericolo reale. È così? Sono da considerare scaramucce o segnali che qualcosa di più grave si sta preparando?

Si comincia a mostrare quello che potrebbe accadere, in previsione che accada. Vedo molti analisti, quelli seri, che non pensano all’allargamento del conflitto come a un’eventualità, ma come qualcosa che avverrà.  L’unica variabile è quando, non se.

Sull’area si accentrano gli interessi anche di altri potenze oltre agli Usa?

Come in tutte le crisi ci sono Paesi che cercano di approfittarsene per posizionarsi meglio dal punto di vista geopolitico o cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio. La Russia sta guardando con molto interesse al fatto che gli americani incrementino gli aiuti a Israele, potrebbero darne di meno all’Ucraina. Anche la Cina ha il suo insegnamento da trarre: considerare Hamas una organizzazione terroristica e volerla portare a distruzione completa, significa per la Cina poter tranquillamente dichiarare, come ha già fatto, che anche gli uiguri sono un’organizzazione terroristica.

La situazione è molto complessa e si fa fatica a immaginare un futuro di pace o almeno di convivenza senza scontri armati: c’è una soluzione che almeno sulla carta sia più praticabile?

Non fino a quando Israele continuerà a considerare tutti quelli che non sono israeliani come dei terroristi. Molti dicono che viene minacciata la sopravvivenza dello Stato di Israele. Ma si tratta di uno Stato forte, in grado di dire no agli americani che sono i loro migliori alleati, da cui ricevono tutto quello di cui hanno bisogno. Nel 1992 all’Università di Gorizia partecipai a un convegno internazionale sulle possibili soluzioni per la Palestina. Si parlò di due Stati, ma anche di una soluzione con tre entità statali, nella quale, oltre a Israele e Palestina, si prevedeva uno statuto internazionale per Gerusalemme. Si può fare tutto, il problema è la volontà di Israele. E quella degli americani di stare dietro a Israele.

(Paolo Rossetti)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI