Netanyahu definisce deliranti le proposte di Hamas per il cessate il fuoco e gli ostaggi, ma la trattativa non finisce qui. Gli americani e i Paesi arabi hanno già ribadito la necessità di trovare un accordo, anche se ormai gli unici che possono fare veramente qualcosa sono gli USA. Tocca a loro, spiega Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 Ore e consigliere scientifico dell’ISPI, convincere il premier israeliano ad accettare la prospettiva dell’esistenza di uno Stato palestinese.



Senza questa opera di convincimento e un’azione decisa di Washington nei confronti di Tel Aviv, Netanyahu e i partiti della destra estrema che lo sostengono continueranno a combattere a Gaza, perché sanno che una qualsiasi intesa significherebbe la fine immediata dell’esecutivo. Anche l’Arabia Saudita sta prendendo l’iniziativa, radunando un fronte di Paesi dell’area per fare pressione e chiede una soluzione definitiva alla questione palestinese.



Il no di Netanyahu alla proposta di Hamas per la tregua significa che non ci sono più margini per trattare? USA, Qatar e altri Paesi spingono per continuare a confrontarsi, quale linea prevarrà?

Nei conflitti in generale, e in particolare in un conflitto così antico e complesso come quello fra israeliani e palestinesi, tutto è in divenire. Certamente Netanyahu ha posto i suoi limiti: ha la necessità di vincere definitivamente, ma sappiamo che è difficile riuscire a sradicare Hamas, oppure continuare la guerra a tempo indeterminato per mantenere il suo potere. Sa che se fanno un accordo qualsiasi, cade il governo. Per questo è difficile che Netanyahu accetti di fare una tregua. C’è la pressione dei familiari degli ostaggi, ma per lui contano gli estremisti di destra, nazionalisti, annessionisti, perché gli danno la maggioranza. Il premier ha bisogno del conflitto per sopravvivere: non c’è guerra senza Netanyahu e non c’è Netanyahu senza la guerra. Dall’altra parte c’è l’esigenza di Hamas di sopravvivere, perché se ci riesce ha vinto il suo conflitto. E per quanti tunnel abbiano scavato, sotto la pressione militare che stanno subendo hanno bisogno di rifiatare. Due esigenze opposte sulle quali la diplomazia sta lavorando.



Gadi Eisenkot, che fa parte del gabinetto di guerra israeliano, accusa Netanyahu di non decidere sul futuro di Gaza e di lasciare che Hamas gestisca così il 60% degli aiuti umanitari, tanto da riprendere anche il governo civile in alcune zone della Striscia. Hillary Clinton dice che il primo ministro se ne deve andare. I familiari degli ostaggi ne chiedono le dimissioni. Il cerchio intorno a lui si sta stringendo?

Assolutamente sì, tutti i sondaggi danno a Netanyahu un consenso che non supera il 15%, mentre nelle ultime elezioni il Likud aveva preso 34 deputati su 120, lasciando a grande distanza il primo partito di opposizione, che ne aveva presi meno della metà. Però è anche vero che solo il 15% degli israeliani è favorevole all’esistenza di uno Stato palestinese. La mancanza di consenso personale viene sopperita dal consenso per la continuazione della guerra. Tutti sanno che qualsiasi negoziato, qualsiasi conflitto, deve portare a un day after che apra la strada a uno Stato palestinese, frutto di 50 anni di occupazione senza via d’uscita. Però gli israeliani sono ancora sotto schiaffo, sono in guerra e fino a che non percepiscono che è più deleteria della pace continuano a essere uniti.

Il Paese, quindi, rimane orientato a proseguire i combattimenti?

Prima della guerra, in occasione della contestata riforma della giustizia, tanti riservisti, compresi i piloti, rifiutavano di andare a servire nell’esercito per protesta. Quando è scoppiata la guerra, Israele ha chiamato 360mila riservisti e tutti si sono presentati. Bibi conta su questo, che gli israeliani siano convinti di combattere ancora questa guerra. È anche vero che ogni giorno che passa lui è più in difficoltà.

Times of Israel parla di un incontro in Arabia Saudita con Egitto, Giordania, Emirati Arabi e Qatar per creare una sorta di cartello che faccia pressione per ottenere il cessate il fuoco e lo Stato palestinese, offrendo la disponibilità a sostenere la ricostruzione di Gaza. I Paesi arabi non hanno fatto sentire a sufficienza la loro voce finora?

Sta nascendo un fronte. I due Paesi impegnati nel negoziato sono stati Egitto e Qatar, ma anche gli altri si sono impegnati contro questa guerra, assicurando il loro contributo per la ricostruzione fisica e politica di Gaza. Emirati, Bahrein e Marocco hanno congelato gli accordi di Abramo. Prima non gli interessava molto dei palestinesi, adesso non li possono ignorare.

Gli Emirati Arabi (insieme alla Norvegia) si sarebbero anche offerti di prestare soldi all’Autorità Palestinese che non riceve più da Israele i fondi dovuti alle entrate fiscali.

Sì, esatto. Sicuramente la ricostruzione sarà appannaggio dei Paesi arabi ricchi, i Paesi del Golfo. Nel 2002, quando ci fu il vertice della Lega Araba a Beirut, i sauditi proposero il piano “terra in cambio di pace”. Gli Stati arabi, compresa la Siria, erano disposti a riconoscere Israele e ad avere normali scambi economici in cambio della restituzione dei territori occupati. Gli israeliani ignorarono completamente l’offerta. Adesso questa proposta torna sul tavolo. Ora non è più come prima, quando era possibile firmare gli accordi di Abramo con Tel Aviv ignorando la questione palestinese.

Chi sono i protagonisti della scena oggi? Chi può prendere l’iniziativa per sbloccare la situazione?

Quando finirà la guerra ci saranno due principali protagonisti: gli americani, che hanno il compito di convincere Israele a intraprendere questo percorso negoziale verso lo Stato palestinese, un potere che solo loro hanno, e i sauditi, gli unici che hanno il potere politico, economico e morale per spingere i palestinesi ad essere pragmatici. Ora, comunque, il ruolo decisivo lo giocano gli americani, che devono forzare Bibi Netanyahu: è intollerabile quello che gli israeliani stanno facendo a Gaza, se poi adesso vogliono attaccare Rafah dove ci sono un milione di sfollati, si rischia un massacro ancora peggiore di quello dei mesi precedenti. Tocca agli USA. E devono essere duri, non possono più fare finta di niente.

Siti israeliani parlano di un incontro segreto Israele-ANP per sbloccare, almeno in parte, la corresponsione delle quote fiscali dovute dagli israeliani all’Autorità Nazionale Palestinese, messa sul lastrico da questa decisione. Vuol dire che l’ANP continua a essere riconosciuta come interlocutrice?

Formalmente questo riconoscimento c’è sempre stato. E l’ANP da 30 anni riconosce il diritto di Israele di esistere. Infatti Netanyahu ha lavorato contro di loro favorendo Hamas: a lui servono i palestinesi cattivi, per dimostrare che è impossibile fare accordi di pace. Adesso, però, dovrebbero riconoscere l’indipendenza di questa Autorità. Il cessate il fuoco non può riguardare solo Gaza, ma anche la brutalità israeliana nei territori occupati in Cisgiordania.

(Paolo Rossetti)

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