Tutta la Striscia di Gaza è sotto la pressione militare di Israele e anche un’eventuale nuova tregua, di cui si è tornati a parlare in queste ore, non cambierebbe la situazione: sarebbe solo un cessate il fuoco temporaneo prima di riprendere ancora a distruggere e sparare. La strategia di Israele, spiega Camille Eid, giornalista libanese residente in Italia e collaboratore di Avvenire, sembra non lasciare spazio a nessuno sforzo in vista di una pacificazione. Il numero dei morti è cresciuto oltre le 18mila unità solo a Gaza, altri 273 sono deceduti in Cisgiordania e la distruzione e la fame non sono certo un buon viatico per puntare a una convivenza pacifica. In realtà Israele così non perseguirebbe la sua sicurezza ma il massimo dell’insicurezza.



Il rischio è che esploda la West Bank. Hamas, di cui Tel Aviv vuole la distruzione, in realtà volente o nolente come movimento politico rappresenta la maggioranza dei palestinesi, che l’hanno scelta rispetto a Fatah soprattutto dopo il mancato rispetto degli accordi di Oslo di 30 anni fa: la Cisgiordania doveva già essere tutta palestinese mentre ad oggi lo è solo al 20%. “Questo è il governo più conservatore nella storia di Israele – ha detto il presidente Usa Joe Biden – e non vuole una soluzione a due Stati”.



Si torna a parlare di eventuali trattative per una tregua e la liberazione di altri ostaggi. Sta cambiando qualcosa nell’economia della guerra?

Si parla sempre di tregua umanitaria, a tempo determinato, il tempo di far arrivare qualche camion di aiuto in più: la boccata di ossigeno che si dà a qualcuno che sta perdendo la vita. Abbiamo visto cosa è successo al Consiglio di sicurezza dell’Onu: davanti a una proposta molto equilibrata presentata da un alleato degli Stati Uniti come gli Emirati Arabi, gli americani hanno usato il diritto di veto, perché il cessate il fuoco va contro gli obiettivi fissati da Israele, l’annientamento totale di Hamas. Un obiettivo che non raggiungeranno mai: non si può ammazzare una ideologia. Uccidendo l’80% di civili innocenti non si fa altro che incrementare l’insicurezza di Israele: per ogni elemento di Hamas morto ce ne saranno altri quattro o cinque che vorranno vendicarlo. In questi giorni è circolata una foto di uomini nudi presentati come appartenenti ad Hamas: fonti israeliane ora dicono che solo il 10-15% di loro è effettivamente dell’organizzazione palestinese.



Restando ai numeri cosa ci dicono quelli che descrivono i tragici effetti dell’operazione militare israeliana?

Secondo i dati di Oms e Médecins sans frontières a Gaza ci sono stati oltre 18mila morti, il 70% dei quali sono donne e bambini. E il rimanente 30% di uomini non sono tutti affiliati ad Hamas. Approssimativamente potremmo dire che un terzo c’entra e due terzi no. Vuol dire che su 100 persone morte 90 non c’entrano niente con Hamas. Fino a quando?

Si può ipotizzare quanto continuerà ancora l’azione di Israele? Si sono dati un orizzonte temporale?

Il consiglio di guerra ha manifestato l’intenzione di andare avanti fino a febbraio-marzo, mentre il segretario di Stato Usa Blinken si sarebbe opposto chiedendo di concludere l’operazione militare in quattro settimane. Anche in questo caso se ci sono stati 18mila morti in due mesi vuol dire che potremmo doverne aggiungere altri 9mila. Diventa un genocidio, se non lo è già. Inoltre ci sono anche 50mila feriti, i mutilati, gli sfollati. E non dimentichiamoci della Cisgiordania: nel periodo dal 7 ottobre al 9 dicembre anche lì ci sono stati 273 morti. In queste ore, gli israeliani continuano a entrare: se non a Jenin a Nablus, se non a Nablus a Ramallah. Se con un’autorità come l’ANP, con la quale hanno dei rapporti, il comportamento è questo allora vuol dire che si stanno mandando a monte tutte le possibilità di pace.

Ora si dice che Israele sta attaccando soprattutto a Sud della Striscia, ma lo fa anche a Rafah, località oltre la quale c’è solo il confine con l’Egitto. E l’operazione militare continua a Nord dove sono stati individuati depositi di armi e attaccate zone in cui ci sono ospedali. La pressione è addirittura aumentata rispetto a prima della tregua?

Non ci sono più luoghi sicuri a Gaza. Il direttore dell’Oms, Ghebreyesus, ha detto che ci sono stati finora 449 attacchi contro strutture mediche a Gaza.

Gli israeliani dicono che sono comunque anche basi o punti di appoggio di Hamas.

Spiegano che se non ci sono uomini di Hamas ci sono comunque dei simpatizzanti, o dei familiari. Alla fine, insomma, non ci sono innocenti. Gli Emirati Arabi Uniti hanno inviato un aereo a Rafah con i rappresentanti dei Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu perché vedessero con i loro occhi il grado di distruzione. Qualcuno ha detto che i danni superano quelli delle città tedesche dopo la seconda guerra mondiale. E allora anche la tregua dà solo un po’ di tempo prima di ricominciare a “martellare” come prima. Sono un po’ scettico sulle nuove trattative: ci sono delle pressioni ma non so quanto possano contare. Alla Casa Bianca, in occasione delle cerimonie per Hanukkah, 18 ebrei sono stati arrestati per essersi incatenati. Protestavano contro la guerra: “Non in mio nome”.

Israele comunque non sembra proprio intenzionata a cambiare linea?

Netanyahu ha dichiarato che Israele si occuperà da sola della sicurezza di Gaza dopo la guerra, non ci saranno forze internazionali. E quando un gruppo di avvocati si è mosso per presentare delle denunce alla Corte internazionale ha detto che investigare su questo conflitto è puro antisemitismo. Se si ricorre così all’argomento dell’antisemitismo non si va a parare da nessuna parte. Si chiude la bocca a tutti. Intanto a Gaza sono morti anche 86 giornalisti.

Ma c’è nella società israeliana qualcuno che esprime dissenso?

Su Haaretz, ad esempio, sono comparsi articoli in cui si dubita della strategia israeliana. Alcuni familiari degli ostaggi hanno avanzato dubbi sulle modalità della morte delle persone che hanno perso la vita il 7 ottobre, sarebbero di più quelle uccise da fuoco amico. All’inizio si parlava di 1.400 morti e si è scoperto che 200 erano uomini di Hamas. Ora, infatti, si parla sì i 1.200 persone. Ma questo è un tema che forse Israele affronterà solo dopo la guerra.

Al di là di certe dichiarazioni di Netanyahu continua a non essere chiaro quale futuro si ha in mente per Gaza, mentre l’ex ministro degli Interni di Hamas Fathi Hammad, secondo dichiarazioni rilasciate alla tv Al Aqsa, dice che loro lavorano per un Califfato con Gerusalemme capitale. È questo l’obiettivo?

Hamas nel suo statuto revisionato nel 2017 ha accettato la realizzazione di uno Stato palestinese secondo i confini del 1967 senza riconoscere lo Stato di Israele, lasciando la porta aperta alla riconquista dell’intera Palestina. Ma non parla di Califfato. Poi bisogna ricordare che, se gli arabi parlano di Gerusalemme capitale, intendono Gerusalemme Est. Per Hamas e per Fatah nello Stato palestinese rientrano Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est.

A volte i giudizi su Abu Mazen da parte di Hamas, e non solo, sono molto tranchant. Quali sono i rapporti di forze all’interno dei palestinesi?

Non si vota dal 2006, l’unico modo per capirlo è guardare le votazioni per il sindacato o per la rappresentanza nell’università. Anche in Cisgiordania la maggioranza è a favore di Hamas. Chi stava con Fatah ha visto che la politica di collaborazione non ha sortito gli effetti sperati. A distanza di 30 anni dagli accordi di Oslo i palestinesi, che già dopo cinque anni dovevano avere tutta la Cisgiordania, hanno solo il 20% del territorio sotto il loro governo diretto. Poi c’è una parte a governo misto, civile palestinese e militare israeliano, e quella israeliana al 100%, nella Valle del Giordano, nelle colonie.

Ma Hamas viene ancora considerato come un possibile interlocutore dalla comunità internazionale?

C’è una notizia che è scomparsa misteriosamente dai notiziari. Oggi dovrebbe esserci a Parigi un incontro convocato da Macron per istituire una coalizione internazionale anti-Hamas come quella creata contro l’Isis. Ha spiegato che non è un’iniziativa militare, anche perché Israele non vuole che altri Paesi agiscano sul suo territorio. Ha convocato 25 Paesi, tra cui l’Italia, nei quali non ci sono Paesi arabi. Forse potrebbe lavorare su come bloccare i capitali di Hamas.

Di fatto, in conclusione, siamo in una impasse totale: gli israeliani continuano a bombardare e non ci sono prospettive di pacificazione, se non la speranza di una tregua che però non sarebbe altro che una pausa in vista di altri combattimenti?

Al massimo una settimana di tregua e poi si riprende. Resta il pericolo di un peggioramento della situazione: prima o poi c’è il rischio che la Cisgiordania esploda. Gli israeliani mettono in imbarazzo anche i loro alleati: perdono consensi a livello mondiale e mettono in cattiva luce l’ANP di Abu Mazen con le incursioni nella West Bank, esautorando di fatto le forze di sicurezza palestinesi. Non stanno costruendo la loro sicurezza, la stanno minando. A meno che il loro obiettivo sia quello dello scontro totale.

(Paolo Rossetti)

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