La fine delle speranze: non si parla più di trattativa per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, mentre a Rafah l’IDF, senza annunci in pompa magna, ha di fatto iniziato l’operazione militare per stanare gli ultimi battaglioni di Hamas. Gli appelli a evitare l’invasione della città al confine con l’Egitto, insomma, sono fuori tempo massimo: l’esercito israeliano sta già mettendo in atto l’operazione che tutto il mondo, invece, chiede ancora che non inizi.



Per capirlo, racconta Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e poi inviato del TG1 Esteri, basta guardare ai numeri dei morti a Gaza, saliti oltre 35mila, e alle centinaia di migliaia di sfollati che si stanno muovendo verso le spiagge della Striscia in luoghi dove non c’è nessuna struttura che li accolga. Intanto nel governo Netanyahu si litiga sul futuro di Gaza: il ministro della Difesa Yoav Gallant non vuole una gestione affidata all’esercito perché teme che i soldati diventino bersaglio di attentati continui, ma il primo ministro, con Smotrich e Ben Gvir, non vuole consegnare la Striscia ai palestinesi.



Non si parla più di trattativa per il cessate il fuoco e anche l’operazione di Rafah non è il solo argomento di dibattito sui media. Sta succedendo qualcosa sottotraccia oppure è cambiato lo scenario?

La situazione è cambiata rispetto a una settimana fa, quando era ancora in piedi un negoziato tra Hamas e il governo israeliano. Il segnale del cambiamento è venuto dai mediatori, dal Qatar e dall’Egitto: hanno riferito che la trattativa non è più sul tavolo perché ci sono due parti che hanno posizioni chiaramente diverse. Hamas è disposta a liberare gli ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi, ma vuole un cessate il fuoco che rappresenti la fine del conflitto, mentre Israele chiede la liberazione dei rapiti ma accetta un cessate il fuoco limitato a pochi giorni, al massimo qualche settimana, e poi intende proseguire nella guerra a Gaza. Tutto questo ha significato la fine del confronto e ha avuto come conseguenza un atto che rappresenta una grande novità: l’Egitto si è schierato con il Sudafrica davanti alla Corte internazionale di giustizia accusando Israele di atti di genocidio nei confronti della popolazione di Gaza.



E su Rafah invece cosa sta succedendo?

L’attacco a Rafah è iniziato, non è stato ufficialmente detto ma è iniziato. L’elemento che lo fa intuire è la richiesta di spostarsi verso il mare a 100mila persone che si trovavano a Gaza: una valanga umana che nel sud è arrivata a oltre mezzo milione di persone che vanno verso le spiagge di Gaza, dove non c’è acqua né luce, e nemmeno tende per ripararsi. E altre 100mila persone stanno lasciando il nord di Gaza (dove si sta combattendo ancora) prendendo la stessa direzione. Sono aumentati i morti e le vittime dei bombardamenti aerei: siamo oltre i 35mila morti e 800mila feriti.

Intanto è ripreso il processo all’Aja contro Israele.

Israele sta impiegando tutto il suo apparato legale per dire che questa guerra non è genocidio. Sull’altro fronte il Sudafrica evidenzia come l’attacco armato è accompagnato da un nuovo blocco degli aiuti umanitari: a Rafah il valico è chiuso. Non solo, c’è una sistematica vandalizzazione degli aiuti che giungono dalla Giordania. Lunghi convogli di camion bloccati dai coloni israeliani in presenza dei soldati che non fanno nulla per impedirlo, come dimostrano i video pubblicati dal Guardian. Una situazione complessa di cui Israele ha timore. Non per niente uno degli argomenti israeliani davanti alla Corte internazionale è che la guerra è in corso ma gli aiuti non sono bloccati, perché alcuni valichi sono aperti.

Il ministro della Difesa Gallant chiede al governo che Israele non si occupi della gestione di Gaza dopo la guerra, suscitando le ire della parte più a destra dell’esecutivo, che non vuole affidare il controllo ai palestinesi. Quanto può danneggiare Netanyahu questa spaccatura?

L’esercito ha cominciato a fare politica tramite il ministro della Difesa Gallant, la persona che finora più ferocemente ha sostenuto la necessità della guerra a tutto campo. Ora parla esprimendo la posizione dell’IDF per il futuro. Per comprenderlo bisogna fare memoria di quello che Sharon fece a Gaza: ritirò 8mila coloni perché per l’esercito israeliano la difesa di quelle poche migliaia di persone si stava trasformando in un bagno di sangue, con attentati divenuti quotidiani. L’esercito fa capire che non intende gestire militarmente Gaza perché imporrebbe un sacrificio di persone a tempo indeterminato. Per questo è stata avanzata la richiesta di trovare altri attori internazionali, arabi o palestinesi, che si assumano la gestione di Gaza e delle sue macerie.

La posizione di Netanyahu, invece, qual è?

Il governo di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir dice che l’esercito deve rimanere per non concedere ai palestinesi il rientro delle loro istituzioni a Gaza. Le elezioni potrebbero modificare questo orientamento: se Gallant, che rappresenta una parte del Likud, e Gantz, che rappresenta una parte dell’opposizione, ottenessero la maggioranza con la benedizione degli USA, allora il ritiro dell’esercito e l’arrivo di una forza internazionale diventerebbero un argomento sul tappeto. Certo, se qualcuno vuole Abu Mazen e i suoi poliziotti contestualmente deve riaprire il tavolo per uno Stato palestinese che comprenda Cisgiordania e Gerusalemme Est. Su questo però nessuna voce del mondo politico israeliano si è esposta.

Anche la Lega araba ha sostenuto che a Gaza deve entrare in azione una forza internazionale. Una soluzione che può prendere piede?

C’è una disponibilità di alcuni Paesi (Emirati Arabi) a inviare proprie forze. Si era parlato di alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, che però si è chiamata fuori non votando all’ONU sul futuro Stato palestinese. Il problema rimane cosa vogliono i governanti israeliani e anche gli USA, che da parte loro stanno tenendo un comportamento contraddittorio: sospendono l’invio delle bombe più devastanti ma poi la Camera dei rappresentanti vota a favore del ripristino dell’invio di armi.

Ma quando ci potrà essere una vera iniziativa politica per costringere Netanyahu alle dimissioni? Gallant e Gantz aspettano la conclusione delle operazioni a Rafah per smarcarsi senza sentirsi dare dei traditori?

Quando saranno distrutte tutte le palazzine di Rafah ci sarà molto da discutere. Una cosa è evidente: sul terreno c’è una politica del fatto compiuto che va oltre gli appelli dei ministri del G7 a non iniziare l’attacco terrestre a Rafah.

La speranza di cambiare questa situazione non c’è più?

Non c’è nessuna prospettiva.

(Paolo Rossetti)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI