È di dimensioni medio-grandi per essere un crostaceo, ma ha la fama di “killer dei mari”. Così viene definito infatti il granchio blu, il cui nome scientifico è Callinectes sapidus. Questo crostaceo originario dell’Atlantico del Nord da due anni ha invaso le zone di acqua dolce e salmastra in Emilia-Romagna, Veneto, Toscana e Lazio, minacciando l’ecosistema di mari, lagune e stagni. Neppure il cambiamento climatico lo ferma, del resto può resistere senza difficoltà tra i 3 e 35 gradi. Si tratta di una specie molto aggressiva e a rapida riproduzione, che non si ferma davanti a nulla: fa razzia di avannotti (i piccoli dei pesci), divora vongole, anguille, orate e spigole di allevamento, può persino rovinare le reti e risalire le sponde per mangiare le uova. Dall’allarme si è passati rapidamente all’emergenza, con i pescatori che fanno di tutto per salvare i propri allevamenti dal granchio blu, sostenendo costi di smaltimento e cattura che Fedagripesca-Confcooperative stima in 100mila euro al giorno. Il governo Meloni ha recentemente deciso di sostenere consorzi e imprese di acquacoltura danneggiati dal granchio blu con 2,9 milioni di euro di aiuti, ma il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare Francesco Lollobrigida va oltre: è al lavoro per definire altri interventi, anche per la trasformazione del granchio blu per diverse filiere.
Infatti, debellare questo “cinghiale del mare” è necessario, ma l’emergenza del granchio blu dimostra che il pericolo può diventare una nuova risorsa e che un problema può essere trasformato in opportunità. Questo grazie al lavoro di realtà innovative come quella di Mariscadoras srl benefit, società di 5 ragazze riminesi che fanno impresa contribuendo a salvaguardare l’ambiente e con particolare attenzione anche alle donne “invisibili” e sottopagate nella “Blue Economy”. Una sfida ambiziosa che è al centro del progetto Blueat, con cui vogliono trasformare un’emergenza per l’ecosistema marino in una risorsa economica per il mercato ittico, riducendo i danni arrecati dalle specie “aliene” e creando una filiera che si intreccia ad altre, come quella gastronomica. L’idea è di raccogliere il granchio blu, liberando le acque da questa insidia, per portarlo sul mercato e, quindi, a tavola. Ma Carlotta Santolini, biologa marina e mente del progetto che cura con Alice Pari public relation manager, Giulia Ricci business manager, Ilaria Cappuccini communication and marketing manager, Matilda Banchetti project manager, ai nostri microfoni spiega anche che è anche un modello di economia circolare, perché anche gli scarti rappresentano una risorsa.
Il Governo ha autorizzando la spesa di 2,9 milioni di euro a favore di consorzi e imprese che catturano e smaltiscono il granchio blu. Come commenta la risposta del governo all’emergenza?
È giusto dare un indennizzo a tutti gli allevatori che hanno subito più di 100 milioni di euro di danni. Noi da due anni lavoriamo al granchio blu per trasformarlo da problema a risorsa, cercando di sensibilizzare le autorità e a livello locale. Questo è il motivo per il quale siamo già pronte con la filiera. Tra pochi giorni mandiamo il primo container in America, sapevamo che si sarebbe arrivati ad un problema di questa portata. All’inizio nessuno ci credeva, ora ci chiamano perché possiamo essere la soluzione. Nessuno sapeva che il granchio blu potesse diventare un problema del genere, se non chi lo studia, ora è diventata un’emergenza. Al ministro, che si è mostrato disponibile e pronto ad aiutarci, abbiamo spiegato che vogliamo utilizzare il granchio blu, perché abbiamo trovato il modo per far sì che sia una risorsa.
Come procede l’interlocuzione a livello istituzionale? Avete portato il vostro progetto anche all’attenzione del governo…
Ci siamo già confrontate con Riccardo Rigillo (Capo di Gabinetto del Ministro per la protezione civile e le politiche del mare, ndr) così come avevamo lavorato durante il precedente governo con Francesco Battistoni (Sottosegretario di Stato al Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, ndr). Quest’anno il ministro è venuto a trovarci a Barcellona e ci sono stati anche contatti telefonici per riuscire a capire come possiamo essere noi la soluzione per i pescatori.
Volendo tracciare un primo bilancio, a che punto è il vostro progetto? È possibile renderlo un modello da replicare?
Noi siamo partite da un’idea, siamo riuscite a parlarne con il Ministero delle Politiche Agricole (Mipaf), dove ci hanno detto di costruire tutto e di essere pronti a supportarci qualora il progetto avesse funzionato veramente. Quindi, ci siamo attivate e abbiamo trovato un’azienda di trasformazione partner, Tagliapetra, e ci siamo avvalse di un consulente molto importante, Luigi Consiglio, che porta il business degli italiani in America. Così siamo riuscite ad aprirci un business negli Usa, visto che abbiamo anche partecipato a diverse fiere internazionali. Siamo passate in un anno dal fare le prove sull’utilizzo del granchio blu alla creazione di una vera e propria filiera. I pescatori ci vendono il prodotto, noi lo compriamo e lo trasformiamo, per poi venderlo in Usa e in Italia.
A tal proposito, che risposta è arrivata dal mercato estero?
In Italia nessuno conosceva il granchio blu e cercare di cambiare la tradizione culinaria non è facile. Questo è il nostro obiettivo, infatti ora il granchio blu sta entrando in tutti i menù di Rimini. Negli Stati Uniti è un piatto tipico e, visto che la domanda è superiore all’offerta perché fanno fatica a pescarlo, si rivolgono a noi, che ne siamo sommersi.
Da una minaccia per l’ecosistema marino, dunque, possono nascere nuove opportunità, non solo commerciali, ma anche gastronomiche.
Questo è il motivo per cui abbiamo puntato molto in questi due anni sulla divulgazione. Il granchio blu è buono da mangiare, all’estero lo consumano, perché non lo possiamo fare anche noi? Inserire il granchio blu nel menu della riviera è anche un modo per valorizzare la tradizione locale.
State pensando di riprodurre questo progetto per altre “specie aliene”?
Stiamo lavorando al momento con alcuni chef stellati, che aggiorno sulle nuove specie, ma visto che il granchio blu è un’emergenza ci stiamo concentrando su questo. Però vorremmo lavorare poi sull’Anadara, un genere di bivalvi.
Fare impresa, al femminile, salvaguardare l’ambiente e rilanciare la tradizione marinara: un piano ambizioso…
Mi sono resa conto del problema perché sono biologa marina e ho girato l’Italia in barca a vela. Ho intervistato i pescatori lungo la costa italiana, ho capito che c’era questo problema, quindi ho contattato le mie amiche, che ora sono anche colleghe, e abbiamo compreso che era anche un’opportunità per cambiare la “mentalità del mare”, perché tutti pensano che siano gli uomini a dover andare in mare. Quindi, per noi è anche una sfida per dimostrare di poter fare qualcosa e che anche le donne possono lavorare in mare.
Infatti, la scelta del nome della vostra società non è casuale…
Volevamo omaggiare un movimento femminile che porta avanti la propria battaglia dei diritti. Le Mariscadoras, infatti, sono donne di mare galiziane. Ma è un omaggio anche a quelle che a Rimini vengono chiamate “Poveracciaie”, donne che raccoglievano le vongole. Anche mia nonna lo era. In Italia le donne nel mondo della pesca sono molte poche e comunque “nascoste”. In Spagna vengono valorizzate, ma c’è comunque ancora molto da fare anche lì, perché ad esempio gli uomini vanno in barca, mentre le donne devono raccogliere i frutti di mare a piedi. Quindi, ci sono ancora delle differenze ed è per questo che portano avanti questo movimento. Noi abbiamo deciso di omaggiare queste donne in questo modo.
Qual è la vostra prossima sfida?
Il nostro obiettivo principale è raccogliere tutti i granchi blu, che altrimenti vengono buttati in discarica. Mi sembra assurdo che una risorsa debba andare sprecata, ed è quello che ho detto anche al ministro. Stiamo poi lavorando in laboratorio perché vogliamo riutilizzare gli scarti e siamo riusciti ad avere già dei risultati. Stiamo trasformando gli scarti in bioplastica. L’economia circolare è la sfida complessiva.
(Silvana Palazzo)
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