Cercare di districare la matassa dei nodi intorno al conflitto tra Armenia e Azerbaijan è operazione complessa e per niente facile. Operazioni manichee sono sconsigliate. L’unico obiettivo che hanno, l’Europa e l’Italia, è quello di mantenere la pace e cercare di limitare la questione alle parti direttamente coinvolte, non certo quello di aizzare scontri ideologici.



A dimostrazione l’intreccio degli interessi degli Stati e potenze regionali esterni al conflitto che forzano la situazione fino a diventare loro il problema.

A far alzare la tensione all’inverosimile, come al solito negli ultimi tempi, sono state le posizioni del presidente turco Erdogan che persegue con lucidità e coerenza il sogno imperialista neo-ottomano. In un recente discorso ha affermato, sempre con il suo modo diretto e senza infingimenti barocchi, che “è venuto il tempo per porre fine alla crisi nella regione iniziata con l’occupazione del Nagorno-Karabach. Una volta che l’Armenia lascerà i territori che sta occupando, la regione ritornerà in pace ed armonia”. Parole, si dirà. Dette però in un discorso ufficiale a Istanbul su di un tema caldissimo, il diritto internazionale marittimo nel Mediterraneo orientale e riportate anche dalla stampa occidentale.



In secondo luogo, parole validate da un fatto gravissimo che sancisce l’ingerenza esterna della Turchia nelle vicende della regione. Si tratta dell’invio di truppe mercenarie a fianco delle forze armate azere. Asia News riporta, notizia rilanciata da Analisi Difesa, che a fine settembre la Turchia ha inviato 4mila mercenari siriani da Afrin per combattere la “guerra santa” contro i cristiani armeni; truppe facenti parte del gruppo islamista filo-ottomano, formato da turcomanni, definito Brigata del Sultano Murad, finanziato e armato già dal 2013 dai turchi. Da segnalare che già durante la guerra civile siriana il gruppo, per altro dedito ad attività di criminalità comune, era stato accusato di crimini di guerra perpetrati sia contro miliziani curdi che civili cristiani, accuse riportate anche da Amenesty International. Accuse che la Turchia respinge, come per altro nega la presenza di mercenari ai suoi ordini in Libia, ma confermate dai social che mostrano miliziani inneggiare alla guerra santa sulle strade azere. A suffragare gli stretti legami con la Turchia, a fine luglio le esercitazioni militari comuni in Azerbaijan precedute da un accordo di aiuti finanziari da parte di Ankara.



A fianco del presidente turco si è immediatamente schierato il Pakistan, che si è legato al dito la posizione armena sul problema del Kashmir e ha denunciato le mire espansionistiche armene.

Fin qui, si dirà, tutto chiaro. Da una parte un paese alle radici della storia occidentale, l’Armenia, alleata della Russia, con una secolare storia di sofferenza, vero e proprio martirio, imputabile proprio alla Turchia. Dall’altra appunto Azerbaijan, Turchia e altri alleati di stessa fede.

Alleanze internazionali che causano effetti di rimbalzo notevoli, e infatti immediatamente spingono Macron ad operare una mediazione ma a fianco dell’Armenia, contro una Turchia sempre più invadente in aree di interesse europeo come la Libia ed il Mediterraneo orientale. Da qui la posizione della Grecia che ricambia il sostegno armeno nella questione di Cipro. O si veda la posizione dell’India, sempre contro l’acerrimo nemico pakistano, pro Yerevan con cui ha da sempre ottimi rapporti.

Ma a complicare la storia innanzitutto dei dati di fatto. Pur essendo una paese a maggioranza sciita, l’Azerbaijan è un paese laico, rispettoso delle altre minoranze religiose, che intrattiene ottimi rapporti sia con la Russia che con gli altri paesi occidentali, grazie anche al petrolio. In secondo luogo, i motivi del conflitto nel Nagorno-Karabakh rimandano a due principi spesso in contraddizione nelle relazioni internazionali. L’autodeterminazione dei popoli di contro all’inviolabilità dei confini nazionali, principio quest’ultimo fatto valere anche dalle risoluzioni dell’Onu riguardo al conflitto del Nagorno-Karabakh (a partire dalla risoluzione 822 del 30 aprile del 1993 e seguite dalle risoluzioni 853,874, 884 per il ritiro delle truppe armene dalle città di Kelbajan, Agdam, Jabrayil, Qubadli e Zangilan).

Ma la ciliegina sulla torta della complicazione la danno le posizioni di Israele e Iran, che si trovano per un gioco della storia su fronti contrapposti, questo è normale considerata la loro totale inimicizia, ma a parti invertite a quella che sembrerebbe una normale logica. Con gli ayatollah sciiti gli armeni e Tel Aviv accanto all’Azerbaijan!

Partiamo dal caso di Israele. Tel Aviv ha da sempre ottimi rapporti con l’Azerbaijan per motivi energetici, economico-militari e di sicurezza. Israele importa da Baku tra il 40% ed il 60% del suo fabbisogno petrolifero e quindi ogni minaccia all’oleodotto Btc (Baku-Tbilsi-Ceyhan) è percepito come una lesione all’interesse nazionale. In secondo luogo, Baku è uno dei primi tre maggiori clienti (gli altri due sono l’India ed il Vietnam) per le forniture di armi israeliane. Secondo Times of Israel il 60% delle forniture di armi all’Azerbaijan provengono da Israele, mentre secondo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), tra il 2006 e il 2019 Israele ha venduto a Baku qualcosa come 825 milioni di dollari in armi compresi quei droni Kamikaze Harop che tanti problemi stanno creando alle forze armate armene.

Ma il punto veramente cruciale è la collaborazione strettissima tra Tel Aviv e Baku sulla questione iraniana, ritenuta da entrambi gli Stati una minaccia. Nel 2016, la rivista Foreign Policy suggerì che tra i due Stati vi era un accordo affinché l’aviazione israeliana potesse usare gli aeroporti azeri nel caso avesse deciso di sferrare un attacco alle installazioni nucleari iraniane.

Di contro vi è l’Iran, ma si sbaglierebbe a credere che il suo schieramento a fianco dell’Armenia sia determinato solo dalla necessità di contrapporsi alla strana alleanza precedente. Il popolo azero nell’Impero persiano era unito, ma nel 1813 il trattato di Gulistan, che pose fine alla guerra Russo-Persiana, divise gli azeri in due entità, una parte sotto l’Iran e l’altra sotto la Russia. Ed ecco che dall’indipendenza dell’Azerbaijan, l’Iran ha paura di una possibile richiesta di autonomia di quelle popolazioni che, secondo dati dell’agenzia Unpo per i popoli senza nazione, assommano a circa 30 milioni, un terzo degli abitanti iraniani. Da qui la politica imbarazzata della sciita Teheran che da una parte manda aiuti, sollevando le proteste della popolazione ai confini con l’azera, alla cristiana Armenia, che però combatte contro gli sciiti armeni. In cambio l’Armenia ha permesso il trasporto attraverso il suo territorio di materiale per le centrali nucleari iraniane aggirando così l’embargo.

Alla luce dei nuovi fatti, la discesa prepotente e assertiva di Erdogan a fianco di una delle due parti, è sempre più necessario che i paesi occidentali, nessuno escluso, rivedano le loro posizioni per tracciare una linea tra alleati strategici e alleati occasionali, senza spingere Baku nelle mani di chi sta solo perseguendo le proprie mire espansionistiche.