Una situazione bloccata, che l’Occidente non ha la forza di risolvere così come gli altri attori dell’area (Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Russia). Risultato: la crisi umanitaria del Sudan, infestato dalla guerra civile tra i soldati della giunta provvisoria di Al Burhan e quelli delle Forze di supporto rapido di Dagalo (detto Hemetti), si sta aggravando sempre di più. Tanto che ai milioni di sfollati e alle migliaia di persone, bambini compresi, che muoiono letteralmente di fame se ne aggiungeranno altre ancora, in una tragedia della quale per ora non si vede la fine. Dagalo, racconta Marco Di Liddo, direttore del CeSI, Centro studi internazionali, non vuole che gli venga tolto il controllo sulle risorse minerarie guadagnate negli anni facendo lavori sporchi per il governo centrale e, fino a che non gli verrà riconosciuto quello che chiede, andrà avanti a combattere. E siccome le armi non mancano a nessuna delle due parti in causa, all’orizzonte per il momento si vedono solo nuove battaglie, villaggi saccheggiati, ma anche una nuova pulizia etnica nei confronti dei Masalit del Darfur, regione martoriata anni fa dai janjaweed (forze speciali che facevano capo a Hemetti, nda) e ora presa di mira dai loro eredi, le RSF di Hemetti, dove sono confluiti.
Dal Sudan arrivano notizie di pulizia etnica da parte delle RSF in Darfur, come facevano i janjaweed anni fa. Cosa sta succedendo?
Nei conflitti africani e più in generale in Sudan la diplomazia e il conflitto non sono condizioni che si escludono a vicenda. È tradizione parlarsi mentre ci si combatte. Tutto ciò deriva dalla debolezza delle istituzioni statali, dalla forza dei gruppi paramilitari e dalla prevalenza dell’elemento etnico-tribale, clanico, rispetto all’elemento statale. Le forze di supporto rapido (RSF) e la giunta di Khartum non hanno mai chiuso i canali diplomatici, anche se continuano a spararsi con una presenza geografica sul territorio abbastanza rintracciabile: le RSF hanno le zone di maggiore controllo nella parte sud-occidentale e nord-occidentale del Paese, mentre il resto è appannaggio delle forze di Al Burhan, la cui giunta militare si è trasferita a Port Sudan perché la capitale è teatro di battaglia.
Gli Emirati sono stati accusati di finanziare le RSF, anche se negano. Quali sono i Paesi stranieri che stanno dietro le due fazioni che si combattono?
Le RSF sono sostenute da Russia ed emiratini e parzialmente da milizie ciadiane ed etiopi che hanno interesse a indebolire la giunta militare, mentre quest’ultima si appoggia all’Egitto e all’Arabia Saudita con i suoi alleati. Più ci sono altri attori esterni: USA, UE e Ucraina. Gli Stati Uniti sono interessati in funzione antirussa, l’UE per cercare di stabilizzare la situazione e impedire una “bomba migratoria”.
Al Burhan e Hemetti, tuttavia, sembrano ancora molto decisi a combattersi, nessuno dei due ha intenzione di cedere il potere che ha. Non c’è soluzione?
Questa guerra civile è totalmente focalizzata sul controllo delle risorse del Paese soprattutto miniere e petrolio. I militari, in maniera diretta o indiretta, tramite agenzie e aziende controllate dal ministero della Difesa, hanno allungato le mani su tutti gli asset economici importanti del Paese: miniere, estrazione e raffinazione petrolifera, importazione di beni, tutto passa da loro. Negli anni il governo centrale, quando c’era Al Bashir, per fare lavori sporchi, soprattutto in Darfur, si è affidato ai janjaweed, poi finiti nelle RSF. Tra i vari premi per loro per questi servigi ci sono state le miniere. Hemetti ha fatto il lavoro sporco per Bashir e ha continuato con la giunta militare, che però a un certo punto lo voleva far fuori. Da qui è partita la guerra civile: Dagalo non vuole rinunciare a ciò che controlla con la sua famiglia.
Ci sono degli schieramenti definiti anche all’interno del Paese?
Nel Paese gruppi etnici minori e milizie paramilitari si sono schierate con l’una o l’altra parte a seconda delle convenienze: il Movimento per la liberazione del Sud Sudan (che rappresenta quella parte di popolazione del Sudan che vorrebbe unirsi al Sud Sudan) e il Fronte di liberazione del Kordofan, due movimenti secessionisti, lottano con le RSF, invece il JEM (Justice and Equality Movement) che combatte in Darfur è a favore del governo centrale, perché Dagalo nella regione ha sterminato migliaia di persone.
Una situazione che sta provocando una crisi umanitaria senza precedenti, con 15mila morti, almeno 8,8 milioni di sfollati e migliaia di persone, bambini compresi, che muoiono di fame. Più grave forse di quella a Gaza. Non è abbastanza per fermarsi?
Non esistono emergenze di serie A o di serie B. I gazawi stanno malissimo come i sudanesi, la differenza è che le sofferenze dei palestinesi le possono vedere tutti, mentre sull’Africa la luce dei media non si accende, riflettendo la classifica di priorità dei governi occidentali. Per andare nel mondo a risolvere le crisi, all’Occidente serve una forza economica, politica e militare che non ha. Lo si vede in Ucraina, a Gaza, nel disastro di tutto il Sahel. Non abbiamo tutti gli strumenti per intervenire se non parliamo con gli altri Stati: Cina, Paesi del Golfo e chi più ne ha più ne metta.
Il ripetersi delle violenze nel Darfur è l’emblema di contraddizioni sempre uguali a sé stesse che si trascinano nel tempo: si può almeno formulare qualche ipotesi per uscire da questa situazione?
La crisi nel Darfur esiste da trent’anni. L’Occidente ha fatto quello che era in suo potere per risolverla ma gli strumenti non sono bastati. Lì ci sono portatori di interesse, una classe politica locale con la quale bisogna parlare. Fino a che le parti non si metteranno d’accordo e non verrà riconosciuto qualcosa a Dagalo avremo una situazione che dal punto di vista umanitario sarà sempre peggio. Le chiavi della crisi sudanese, insomma, sono negli attori locali. L’Occidente può cercare di farli ragionare, di indurre al Burhan a fare qualche concessione a Hemetti. Oppure, se non gli sta bene perché non vuole riconoscere qualcosa alle milizie statali violente vicine ai russi, deve pensare a un più diretto coinvolgimento a fianco del governo centrale. Ma per questo non ci sono risorse. La terza via è l’unica percorribile: coinvolgere altri attori che in Africa sono diventati più influenti di noi.
E se tra Burhan e Dagalo non si trovasse un accordo?
Si vandrà avanti fino a che le parti saranno stremate, a corto di armi e munizioni. A meno che uno dei due contendenti non ceda. In questo momento, tuttavia, non ci sono le condizioni perché si verifichi nessuna di queste possibilità.
(Paolo Rossetti)
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