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Home » Esteri » Medio Oriente » GUERRA DAL LIBANO A TEHERAN/ “Netanyahu e gli Usa puntano a un cambio di regime in Iran”

  • Medio Oriente
  • Usa
  • Esteri

GUERRA DAL LIBANO A TEHERAN/ “Netanyahu e gli Usa puntano a un cambio di regime in Iran”

Int. Renzo Guolo
Pubblicato 1 Ottobre 2024 - Aggiornato alle ore 06:11
Bombe di Israele sul Libano: macerie a Beirut (Ansa)

Bombe di Israele sul Libano: macerie a Beirut (Ansa)

Gaza, Libano, Iran: solo gli USA possono fermare Israele. Ma Washington, come Tel Aviv, non vuole più un regime islamista a Teheran

La linea di Netanyahu è chiara: nessun nemico al confine e un Medio Oriente con l’Iran non più governato da un regime islamico. Un obiettivo che, tutto sommato, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione all’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi, è condiviso dagli americani e non dispiace anche ad altri attori dell’area, quelli di estrazione sunnita. È per questo probabilmente che gli USA (anche per colpa di un’amministrazione Biden divisa al suo interno), al di là delle parole, non indirizzano diversamente la strategia israeliana.


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Per cambiare lo scenario basterebbe una sospensione degli aiuti militari e finanziari: il messaggio arriverebbe chiaro a Tel Aviv, che invece, in mancanza di segnali forti, continua nel suo piano di attacco. Lo ha dimostrato nelle ultime ore con le azioni militari contro gli Houthi nello Yemen e in Libano, dove ora procede con “limitate operazioni di terra” e colpi di artiglieria, con il pericolo che la guerra si allarghi poi all’Iran.


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Gli USA dicono di essere preoccupati per un eventuale attacco dell’Iran in Israele. O è più probabile il contrario?

Gli iraniani temono come la peste questo sviluppo. Netanyahu ha messo a nudo la guerra dei proxy. L’Iran ha scelto di far combattere altri, perché sa benissimo che in uno scontro militare rischia molto, anche in virtù della sua fragilità interna come regime. Tenta di mantenere un ruolo influente facendo da coordinatore politico di alleati come Hamas, Hezbollah e Houthi, che combattevano al fronte. Questo tipo di situazione mette l’Iran all’angolo: si trova nella condizione di abbozzare un’azione che però indebolirebbe la sua posizione di leader dell’arco sciita o di farsi coinvolgere in un conflitto che potrebbe portare a un mutamento regionale di grandissima portata, con uno scontro durissimo che rischierebbe di travolgere il regime.


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Quindi Teheran cosa farà?

Penso che abbia tutto l’interesse a guadagnare tempo. Ha interesse a durare e a capire se, nell’arco di qualche anno, riuscirà a sviluppare un nucleare che gli consenta di avere una deterrenza nei confronti di Israele.

In questa situazione, quindi, avrebbe tutto da perdere ad accettare lo scontro con Israele?

Come tutti i regimi, per l’Iran vale il principio “primum vivere”. Con il 7 Ottobre gli iraniani sono stati portati in un conflitto che non volevano in questi termini: hanno dovuto fare buon viso a cattiva sorte e si sono schierati, ma potevano farlo solo in questo modo, perché altrimenti il conflitto avrebbe assunto tutta un’altra dimensione. Ora i proxy capiscono che la garanzia iraniana ha un limite: se vogliono sviluppare le loro dinamiche, le devono gestire in prima persona, anche se riforniti militarmente dall’Iran.

La mancata risposta all’uccisione di Haniyeh a Teheran è stata interpretata da Netanyahu come il via libera alla realizzazione dei suoi programmi di attacco?

La linea di Netanyahu è di cambiare il quadro mediorientale. Ha intravisto la possibilità di usare il conflitto per rimettere a posto la regione. All’ONU ha mostrato due cartine che erano l’espressione dei suoi desiderata: una dominata dall’Iran e una, invece, con Teheran messa all’angolo grazie a un accordo tra Israele e Arabia Saudita, che avrebbe garantito uno sviluppo differente a tutta la regione. Il problema adesso è vedere se Israele va avanti o no.

Da cosa dipende questa decisione?

Siamo di fronte a una situazione pazzesca. La prima potenza mondiale non riesce a dire al suo alleato: “Fermati perché vogliamo portare avanti una trattativa”. Basterebbe sospendere i rifornimenti militari e finanziari per un piccolo periodo e il segnale sarebbe chiaro. Ma il segnale non arriva, come se la pistola degli USA nei confronti di Netanyahu fosse completamente scarica. Non viene puntata perché gli interessi strategici di medio e lungo periodo collimano: un Medio Oriente con un Iran senza regime islamista è anche l’obiettivo americano. Questo è il vero nodo.

Solo Washington può cambiare la situazione?

Se gli USA decidono per una soluzione diplomatica, hanno la forza per imporla, ma se non riescono a realizzarla a Gaza e in Libano, vuol dire che non vogliono oppure che sono divisi al loro interno: non è un mistero che il Consiglio di sicurezza preferisce la linea dura, mentre intelligence e Pentagono sarebbero per un negoziato, perché capiscono che la gestione del dopo non sarà così facile. Il rischio per gli USA è che le loro parole vuote diventino controproducenti: che immagine dà di sé una potenza che non riesce a imporre al suo alleato un minimo di orientamento sul modo di combattere, sulla tregua, sul negoziato? O è propaganda o è impotenza. E non si sa quale sia peggio.

Anche l’entrata nel governo Netanyahu di Gideon Sa’ar (contrario al cessate il fuoco) e del partito Nuova Speranza fa pensare che la linea resterà quella evidenziata in queste ultime settimane: c’è da attendersi un’invasione del Libano?

Netanyahu paradossalmente è coerente fino in fondo. La linea tracciata dal 7 Ottobre in poi è chiara: nessun nemico ai confini. Al Nord vuol dire Hezbollah oltre il fiume Litani. Se poi le condizioni operative lo consentono, si cerca di incidere anche sull’esistenza di forze come queste: dall’operazione sui ricercati al bombardamento che ha portato alla morte di Nasrallah, l’intento è di disarticolare la catena di comando e impedire a Hezbollah di organizzarsi, mirando a decapitare l’organizzazione e, se possibile, a distruggerla militarmente. Farlo politicamente non sarà facile, Hezbollah rappresenta la stragrande maggioranza della confessione sciita.

Al di là dell’Iran, comunque, gli altri Paesi dell’area non sembrano così contrari alle iniziative di Israele. In fondo, nel contrasto fra sciiti e sunniti, Tel Aviv fa il gioco di questi ultimi?

È inevitabile, l’Arabia Saudita non si straccia le vesti per quello che succede. Non poteva firmare gli Accordi di Abramo dopo il 7 Ottobre perché è il custode dei luoghi santi, ma se qualcuno fa il lavoro al posto suo, è più che contenta. E questo vale anche per altri nel mondo sunnita. Hezbollah e l’Iran sono espressione del mondo sciita e la frattura con i sunniti, tanto più se parliamo di sciiti radicali, è una frattura vera. In Libano la comunità sunnita, come quella cristiano-maronita, non si è stracciata le vesti. Diverso sarebbe se ci fosse una guerra aperta che coinvolgesse tutto il Paese, in quel caso scatterebbero altri meccanismi.

La divisione sunniti-sciiti pesa ancora molto?

Hezbollah e Iran sono percepiti come l’essenza di una potenza ostile ai sunniti. Pensiamo solamente al ruolo che Hezbollah ha avuto in Siria nel sostenere Assad: non solo i suoi miliziani si sono battuti contro le forze sunnite sostenute dall’Arabia Saudita, ma persino contro i Fratelli musulmani siriani, la stessa branca di Hamas. Molti possono essere contenti sul breve. Poi, che la guerra portata a questi livelli conduca alla pace che Netanyahu vuole, è un’altra questione. Si aprono altri problemi: probabilmente assisteremo a un ritorno del terrorismo sotto altre forme.

(Paolo Rossetti)

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Tags: Benjamin NetanyahuJoe Biden

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