Dopo l’atteso discorso di Trump all’Economic club di New York di ieri non è lecito attendersi grandi cambiamenti nella politica economica ed estera americane. È stato un discorso con tanti applausi mentre gli indici toccavano nuovi massimi in cui si sono proclamati i successi nel mercato del lavoro, i tagli alla burocrazia, alla bolletta energetica, alle tasse e soprattutto il nuovo corso sulle politiche commerciali perché l’America deve tornare a essere terra di manifattura con le imprese che tornano indietro. Il sapiente uso dei media sulla trade war che c’è ma forse non c’è, con i dazi che ci sono ma forse vengono rimandati o cancellati, con gli accordi che arrivano presto ma forse no sta avendo risultati veri, con decisioni strategiche vere di aziende vere. Le lamentele contro la Fed che non farebbe fino in fondo il suo lavoro sono funzionali.



La “polemica” sulla guerra commerciale viene considerata sterile e senza effetti di lungo periodo solo da chi non guarda quello che succede. Il continuo tira e molla sugli annunci puntualmente seguiti da contro-annunci, ordini e immediati contrordini rischia di non far percepire quello che sta accadendo. Google ha spostato la produzione del suo smartphone Pixel dalla Cina a Tailandia e Vietnam. Molte altre multinazionali americani, da Apple a Dell, hanno cambiato i propri piani di investimento spostando tutta o parte della produzione dalla Cina. Non sapendo se alla fine i dazi saranno una condizione dei prossimi dieci mesi o dei prossimi dieci anni, se verranno cancellati, mantenuti o aumentati, l’opzione ragionevole e prudente è di comportarsi come se i rischi peggiori fossero possibili. Gli effetti di questi annunci sono quindi già adesso assolutamente tangibili e significativi anche nelle proporzioni. In un’economia che rallenta con l’Europa ripiegata su stessa e sulla guerra interna fratricida e una Cina alle prese con l’inflazione dei beni alimentari e la crisi di Honk Kong, l’America esercita come un randello tutto il peso di essere il più grande mercato del mondo con un Pil in salita e pazienza se anche il debito sale. Nel lungo periodo saremo comunque tutti morti.



Si può intravedere un obiettivo “strategico”, quello di separare l’economia americana e la sua sfera da quella cinese magari a discapito delle ragioni economiche di breve periodo. È un elemento coerente con uno scenario in cui il confronto tra Cina e Stati Uniti avviene su basi diverse da quelle degli ultimi trent’anni con effetti sull’economia globale. Gli Stati Uniti sono oggi il principale mercato globale, con una disoccupazione ai minimi e lo ricordano ai partner commerciali a ogni occasione; gli effetti di questo spostamento dei rapporti commerciali sono un problema enorme per tutti, in primis per la Cina e poi per tutti gli altri. Nessuno si può permettere di perdere l’accesso al mercato nordamericano e nessuno vuole assorbire l’extracosto dei dazi sui propri margini. Questo è un elemento negoziale importante che gli Stati Uniti usano e che in un certo senso obbliga a una scelta di campo. La “fedeltà” del Vietnam alla causa viene premiata.



Non è più possibile pensare di fare affari con tutti come cinque anni fa pensando che nessuno si arrabbi o che non ci siano conseguenze. L’Europa che poteva essere un attore terzo non ha la forza per essere un’alternativa e anzi si percepisce una volontà in molti membri di giocare questa partita in conto proprio; anche la Francia rilancia l’”Europa” con l’unico obiettivo di colonizzare i membri più fragili per giocare una partita tutta francese da una posizione di maggiore forza. Il rischio, per la cronaca, è che gli Stati Uniti, che possono molto ma non tutto, assecondino questo desiderio per minimizzare la confusione che questo cambiamento di paradigma comporta e che in Europa si scontra con un modello rigidissimo e non funzionale. L’Italia è complessissima, troppo per tutti.

Se la guerra commerciale, così come si sta sviluppando, persegue e ottiene obiettivi strategici e non, o non solo economici, immaginate come vengano percepiti i Paesi, come il nostro, che permettono o persino cercano accordi dal sapore strategico con la Cina, dai porti in giù magari ripetendo a voce una fedeltà all’alleanza atlantica che lascia interrogativi sulla buona fede di chi li fa mentre si complimenta per gli accordi sulla Via della seta o sulla non comprensione di quello che sta accadendo. Non si può avere tutto. Chi va con la Cina non va con gli Stati Uniti e chi pensa che l’Unione europea possa essere un’alternativa strategica dovrebbe fare almeno un’analisi sulla volontà di cambiare i suoi difetti strutturali e sui suoi rapporti di forza.

L’analisi dovrebbe anche riflettere su dove si collocherà l’Europa nel caso non riuscisse a essere un attore terzo. Se l’alternativa è la Cina ed è questo che si è deciso bisognerebbe spiegare le conseguenze di lungo termine sulla vita di tutti.