I mercati comprensibilmente continuano a non mostrarsi particolarmente felici della piega che ha preso il confronto tra Cina e Stati Uniti. Visto che nessuno sa esattamente come e soprattutto quando finirà, gli investitori fanno l’unica cosa “razionale” e applicano uno sconto “incertezza” a tutto quello che è quotato; fino a che la questione non sarà definita o fino a che le banche centrali non cominciano a “narrare” le politiche di espansione monetaria non c’è da farsi illusioni. Gli Stati Uniti hanno alzato lo scontro con la Cina dichiarandola una manipolatrice dei cambi; non è esattamente una notizia sconvolgente, però l’accusa non era mai stata esplicitata in questo modo.
Per gli Stati Uniti la Cina è un concorrente geopolitico; non si può permettere che un concorrente geopolitico con un’agenda confliggente porti a casa tutti gli anni un surplus commerciale colossale che è dannoso e non più sostenibile per l’economia americana. Se i rapporti fossero equilibrati il problema non si porrebbe, ma la Cina finora si è rifiutata di fare passi concreti e significativi nella direzione delle richieste americane. Un conto è permettere rapporti commerciali così squilibrati con un alleato, un altro conto è farlo con una potenza la cui traiettoria “geopolitica” è in collisione.
Non consideriamo, anche se ci sono, i riflessi elettorali di questo confronto che sono un’opportunità mostruosa per Trump che può, giustissimamente, accusare il suo predecessore di aver “dormito” sull’esplosione di squilibri che avvantaggiavano una potenza concorrente, un manipolo di “multinazionali” a tutto discapito dell’americano medio e della working class. Nel partito democratico hanno prevalso le voci che dipingevano Trump e il suo tentativo di riequilibrare i rapporti con la Cina come quasi intrinsecamente sbagliati e quindi oggi il Presidente può accusare l’opposizione di aver “tradito” gli interessi americani.
La conclusione è che chi ha passato mesi e trimestri a dirci che Trump era pazzo e avrebbe presto incassato una sconfitta e rimesso in discussione la sua politica economica oggi dovrebbe rapidamente fare i conti con la realtà. Trump e l’America non smetteranno. La prossima tappa in questa lunga partita che non è neanche alla fine del primo tempo è la stipula di nuovi accordi con gli altri partner commerciali americani. L’America può ancora molto, ma non può avere tutti i fronti aperti e, nel frattempo, andare allo scontro con la Cina. Adesso è il momento di definire le controversie commerciali con Giappone e Unione europea, far valere tutto il proprio, enorme, potere di importatore netto per mettere quanto più possibile in un angolo la Cina.
Parlare con l’Unione europea vuol dire parlare con la Germania che oggi è molto preoccupata per la piega che hanno preso gli eventi e per le conseguenze che questi hanno per il suo modello. L’Italia in Europa non conta nulla dal 2011 e cioè da quando ha accettato l’umiliazione completamente ingiustificata dell’austerity; un’austerity che è il nuovo paradigma per l’Italia, certificato in Costituzione, che continua fino a oggi e che la rende nei fatti una colonia mai in grado di ribellarsi allo status quo europeo. Costantemente ricattabile dalle istituzioni europee, costantemente obbligata a politiche restrittive anche in fasi di crisi acuta di modo che non possa neanche pensare di inserirsi come terzo incomodo nella “conduzione carolingia”.
La ridefinizione degli equilibri commerciali tra Stati Uniti e un’Unione europea ricattabile sono un rischio enorme per l’Italia perché chi farà le trattative dovrà difendere altri interessi che non sono i nostri. L’unica possibilità è che gli Stati Uniti possano vedere nell’Italia un alleato stabile e che possano imporre a chi farà le trattative per l’Europa un trattamento non troppo punitivo. Purtroppo, invece, una parte del Governo e una parte importantissima dell’opposizione continuano a difendere rapporti con la Cina che oggi non sono più proponibili. In questa fase ci converrebbe un Governo molto meno “europeo” e molto più “americano”.