Ci mancava anche la guerra del petrolio! Siccome, come dicevano le nonne, tutte le disgrazie non vengono mai sole, la pandemia da coronavirus, oltre alla sua scia di morti, comporta conseguenze inaspettate come la guerra economica per il prezzo del petrolio.

Il punto di partenza è dato dalla decisione da parte dell’Arabia Saudita di abbassare unilateralmente il prezzo di vendita (già calato del 30%) davanti all’opposizione russa di tagliare la produzione per far fronte alla caduta verticale del consumo a causa del diffondersi del virus, che ha significato un super rallentamento dell’economia cinese, il più grande importatore di petrolio del mondo, del turismo e quindi dei trasporti. Secondo gli analisti economici (IHS Markit), la domanda petrolifera mondiale crollerà in modo verticale: nel primo trimestre si consumeranno nel mondo 3,8 milioni di barili in meno rispetto all’anno scorso, e ancora non è finita. La scelta dei sauditi rompe un’alleanza con Mosca nata per contrastare la sfida americana dello shale oil, ma da tempo in crisi, per lo meno dal mancato sostegno a Mosca ad affrontare le sanzioni internazionali.



Davanti ad una situazione così grave, il braccio di ferro tra Arabia e Russia rischia di lasciare sul campo numerosi feriti gravi. Per capirci qualcosa, bisogna considerare un dato, il break-even point, o punto di pareggio, per la produzione di petrolio, ma a due livelli: il primo rappresentato dal rapporto puramente industriale tra costo di estrazione e vendita, il secondo tra prezzo del petrolio e finanze dello Stato produttore.



Oggi, ad esempio, il prezzo del barile è 33 dollari; per gli Stati Uniti, che sono diventati un paese autosufficiente, il costo di estrazione al barile si aggira intorno ai 20/25 dollari, mentre in Arabia Saudita, in Iran o in Iraq il costo di estrazione è intorno ai 10 dollari.

Un altro dato da considerare è la salute economica complessiva del settore paese per paese, con la conclusione che una guerra dei prezzi vedrebbe come prima vittima le industrie petrolifere statunitensi, molte delle quali finanziariamente fragili e di conseguenza andrebbe a colpire Washington, vero obiettivo dell’irrigidimento russo.



Ma il break-even del settore non è sufficiente, il dato centrale è rappresentato dall’importanza che il petrolio riveste per l’economia e la società di un paese nella sua totalità, quanto cioè sia dipendente dalle esportazioni di oro nero. E qui le conseguenze sono complesse e sorprendenti.

Partiamo dalla Russia, che ha il pareggio del suo bilancio con il petrolio a 40 dollari, mentre quello saudita lo è ad un livello estremamente superiore, 80. Non solo: Mosca, indebolita dalle sanzioni economiche che in modo paradossale l’hanno resa meno dipendente dalle importazioni, è pronta a sostenere la corsa al ribasso per sei-dieci anni e perfino a svuotare il suo fondo sovrano dotato di una riserva di ben 150 miliardi di dollari.

La situazione di Riad è diversa, è come si dice un petro-Stato che vive di rendita, che se da una parte è dotata di riserve superiori ed è in grado di modulare la produzione, di converso il suo patto sociale è fondato sulla ricchezza petrolifera, sui cui proventi ha costruito inoltre l’ambizioso piano di riforme Arabia Vision 2030, varato proprio per uscire dalla logica della mono-produzione.

Ma il gioco non è a due e nemmeno a tre, non ci sono solo Arabia Saudita-Russia-Usa. C’è anche il resto del mondo, in primo luogo gli altri paesi produttori e quelli consumatori. Per gli altri paesi produttori, il futuro è molto più incerto. Per l’Iraq, senza governo e con una situazione da tutti i punti di vita terribile, il crollo dei prezzi è insostenibile, così per l’Iran, sfiancato dalle sanzioni internazionali e dal malcontento sociale. Ma anche gli altri paesi del Golfo non se la passano molto meglio, perché saranno costretti a indebitarsi per far fronte alle loro necessità, data la loro propensione a spendere più di quanto ricavano dalle vendite del petrolio. Il Qatar, ad esempio, ha un punto di pareggio del bilancio a 60 dollari al barile, ben oltre quello attuale.

E poi ci sono gli effetti a catena, perché molti paesi arabi e del Medio Oriente usufruiscono degli ingenti aiuti che provengono dai paesi del Golfo. L’elenco è già lungo, a partire dalle situazioni di crisi, dalla Siria allo Yemen, dal Libano in bancarotta ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, ma la lista è più lunga. Fino a coinvolgere i paesi esportatori di manodopera come il Pakistan.

Forse l’unica realtà che ne trarrà sicuro vantaggio sarà la Cina, che acquista il 72% del suo fabbisogno petrolifero, dalla Russia come dall’Arabia Saudita, e che sta già approfittando di questa guerra per aumentare le sue scorte.